CORPO

Conversazione tra Anna Maria Crispino e Rosi Braidotti

Crispino. Il corpo sembra allo stesso tempo il grande protagonista – per visibilità, esposizione, pratiche discorsive – di questi nostri anni ma anche il grande assente in quanto virtualizzato, annichilito, neutralizzato. Come è avvenuto, secondo te, questo passaggio – un vero e proprio doppio movimento – a partire dalla fondamentale elaborazione delle pratiche e della teoria dei soggetti incarnati?

Braidotti. Credo in effetti che nel terzo millennio la soggettività in generale, e quella femminile in particolare, sia diventata un luogo paradossale, un complesso teatro ove giocano molteplici intrecci sociali, simbolici, discorsivi. Un’entità che Michel Foucault ha analizzato con grande lucidità come un nodo di rapporti di potere e sapere paradossali tra l’inflazione discorsiva e l’assenza di sostanza. Un corpo che non è più uno, ma piuttosto una vera molteplicità di strati, di pratiche e di discorsività corporee. Vorrei suggerire, di conseguenza, che è più adeguato parlare del nostro corpo nei termini di molteplici posizionamenti corporei. La convergenza delle nuove tecnologie – quelle della comunicazione da un lato e le bio-tecnologie dall’altro – esemplifica perfettamente tali spostamenti di paradigmi e di assi identitari. Quindi essere incarnati significa che siamo soggetti situati, capaci di inscenare una serie di (inter)azioni che sono discontinue nello spazio e nel tempo.

Ci troviamo dunque ad affrontare i termini del paradosso della simultanea scomparsa e sovraesposizione del corpo, cioè dell’eccessiva esibizione di sé ma anche della perdita di sostanzialità. Il corpo come fattore costituente della soggettività diventa il luogo in cui si sovrappongono codici culturali e pratiche discorsive molteplici e contraddittorie. Il corpo è anche la ‘carne’, è il capitale erotico che nutre tutto il nostro sistema di rappresentazione mediatica e televisiva. Il carattere visivo del regime di rappresentazione attuale fa in modo che lo sguardo del Panottico, che secondo Foucault è al cuore dei regimi di controllo del corpo nella modernità, si sia trasformato in una potenza globale. La rivoluzione multi-mediale ha stabilito un vero impero dello sguardo disincarnato – che Donna Haraway definisce come «l’occhio del satellite in e su ognuno di noi». La tecno-cultura crea spazi di immersione totale del corpo in processi sempre più diffusi di visualizzazione, dal computer alle telecamere video. Le politiche della visualizzazione, specialmente nel campo delle bio-tecnologie, hanno creato nuovi spazi di resistenza femminista, inventando una ‘politica visiva’ di cui le artiste contemporanee costituiscono in certo modo l’avanguardia.

I media contemporanei offrono gli esempi più significativi del regime di visualizzazione al quale siamo sottomessi quotidianamente. Per esempio, lo spazio televisivo si è trasformato ultimamente in spazio privato, non solo nel senso finanziario del termine, ma anche in quello emotivo. Oggi si parla ovunque di ritorno dell’affettività, delle emozioni esibite in pubblico. Basta pensare a quei talk-show che mettono in vetrina gli affetti più intimi – e a volte anche i più squallidi – senza alcuna traccia di ritegno. Siamo immersi in una specie di regime pornografico diffuso, che fa merce dell’espressione emotiva, toglie tutti i tabù all’esibizione di quelli che una volta si chiamavano sentimenti e ne fa materiale ‘sensazionale’, cioè materia prima da simulare e vendere. Le tecnologie digitali vanno oltre e inaugurano, con Youtube e Myspace, una vera messa in scena di corpi virtuali, che moltiplicano le nostre esistenze in modi che sono complessi, paralleli ma anche contraddittori. Il bio-potere, teorizzato da Foucault, è diventato il regime della visualità come modello rappresentativo dominante. Siamo quindi alla tele-banalizzazione del vivente: neanche il Grande Fratello è più quello di una volta.

In questo contesto, non ha più senso parlare del binomio repressione/liberazione dei sentimenti, o della sessualità. La nozione stessa di ‘sintomo’ e dei suoi significati latenti è esplosa in questa nostra epoca che si è lasciata sedurre dall’illusione della trasparenza assoluta dell’informazione. Lo stesso concetto di ‘informazione’ – che comprende quella dei telegiornali così come quella contenuta nel codice genetico – ormai sembra non celare più segreti e svela tutti i suoi valori, specialmente se quotata in borsa.

Davanti a un’evoluzione del genere, io preferisco prendere le distanze, da un lato, dall’euforia di coloro che considerano la tecnologia avanzata e soprattutto il cyber-spazio come la possibilità per multiple e polimorfe reincarnazioni; dall’altro, dai troppi profeti della rovina che piangono il declino dell’umanesimo classico. Il desiderio nostalgico per un passato considerato migliore è una risposta sbrigativa e assai poco intelligente alle sfide della nostra epoca. Non soltanto è inefficace dal punto di vista culturale, nella misura in cui fa riferimento alle condizioni della propria storicità semplicemente negandole; è anche una scorciatoia per l’attraversamento della loro complessità. Al contrario, io scelgo di situarmi in questa realtà in un modo più complesso, più gioioso e anche più inquieto, perché siamo sulla soglia di nuovi e importanti ri-posizionamenti anche e non solo della pratica culturale.

Una delle pre-condizioni più significative di queste nuove prese di posizione sta nel rinunciare sia alla fantasia di infinite reincarnazioni virtuali che all’attrazione fatale della nostalgia. Mi pare sia necessaria una buona dose di neo-materialismo – quali le teorie dell’immanenza radicale o del materialismo incarnato tipico della tradizione filosofica francese, fino alla nomadologia, alle filosofie femministe della differenza e ai vari movimenti cyber e cyborg alternativi. In quanto femminista e anti-razzista, vale a dire in quanto soggetto emergente da molteplici storie di oppressione ed esclusione, direi che questa crisi dei valori convenzionali è una cosa piuttosto positiva: non è affatto un salto melanconico nella perdita e nel declino, piuttosto la gioiosa apertura di possibilità nuove.

Crispino. Nel tuo ultimo libro, Trasposizioni, porti a compimento un percorso di riflessione che fa del corpo un portato di molteplici differenze, che si giocano sul limite della ‘sostenibilità’ del proprio essere soggetto in divenire. Una sostenibilità che va continuamente negoziata in una pratica di relazioni con l’umano e il non umano. Significa, in un certo senso, ridefinire continuamente limiti e potere/potenza dell’io incarnato?

Braidotti. La nozione di sostenibilità non è solo economica, ma anche sociale ed etica. La vedo come una risposta positiva alla crisi che accompagna il processo di trasformazione della tarda post-modernità. Il concetto di sostenibilità non è una questione facile. Appartengo a una generazione che ha bruciato molti dei suoi campioni durante sperimentazioni di tipo narcotico, politico, sessuale o tecnologico senza alcuna prospettiva. Anche se ne abbiamo perduti altrettanti, se non di più, sul fronte dell’inerzia ottundente dello status quo, è nondimeno vero che tutto ciò mi ha dotata di un’acuta consapevolezza di quanto dolorosi, pericolosi e difficili siano i cambiamenti. Occorre che i cambiamenti vengano dosati e programmati attentamente, secondo la propria soglia di sostenibilità. Il mio punto di partenza per questo ragionamento è la filosofia come pratica cartografica, vale a dire una mappatura ragionata del nostro stare-al-mondo. Pratica che io considero materialista, cioè laica, e che s’intreccia con due grandi filiere di pensiero: la filosofia della modernità, per me quella francese, che produce il post-strutturalismo e la passione della politica come etica del fare, e quindi i movimenti politici, primi fra i quali io citerei i femminismi nella loro diversità, ma anche nella loro concretezza. Il metodo filosofico femminista è la politica del posizionamento, vale a dire pensare e partire da un sé che non coincide con l’immagine dominante del soggetto pensante. Un sé sessuato che si colloca nel mondo come soggettività sessuata, ma non nel senso di un relativismo cognitivo quanto piuttosto in quello di una ricerca di nuove forme d’universalità concrete, situate, corporee.

L’attuale fase storica di tarda politica neo-liberale sostenuta da un’economia politica guerrafondaia e militare è caratterizzata dal ritorno delle grandi narrazioni. Non, però, dalle stesse che avevano strutturato la modernità. Viviamo in un’epoca che ci offre, in maniera spasmodica e sofferente, un nuovo irrigidimento delle categorie fondamentali: quelle di vita, per esempio (e quindi anche di morte), ma anche di potere – e quindi delle forme di discriminazione e di esclusione – e infine di modi di approccio al mondo nel senso di un imperativo etico-politico, che si riassume nell’eterna questione: ‘come fare?’.

Come fare per reggere le forze d’urto, le contraddizioni e i paradossi di un’epoca di tali cambiamenti, tale frammentazione e tale violenza? Che ‘norme’ possiamo applicare alla ricerca di un nuovo senso della misura, dei valori, dei limiti? Come pensare ai limiti non come frontiere normative, ma come soglie che si aprono verso nuovi modi di stare al mondo – come orizzonti da esplorare, con tutta la loro contropartita in forme di vulnerabilità, rischio e ricerca dell’alterità come progetto aperto?

Penso che per stare nel mondo in questa maniera ci serva, in questo momento storico, un senso dei limiti che non ricalchi i sentieri battuti dalla morale tradizionale – poiché le grandi religioni monoteistiche sono le protagoniste delle convulsioni violente della nostra storicità e quindi fanno parte integrante dei problemi che ci troviamo ad affrontare, non delle loro soluzioni. Ci serve quindi un’altra definizione dei limiti, che ci permetta di pensare il cambiamento nella sua positività; la frammentazione come la nostra struttura ontologica produttiva e non distruttiva; la materialità come intelligenza corporea che tende verso l’auto-conservazione e l’etica come principio di sostenibilità. Quest’etica è un progetto aperto – un campo di sperimentazioni, una sfida.

Dal punto di vista metodologico, dobbiamo eseguire una mappatura accurata della nostra soglia di sostenibilità. Il soggetto sostenibile è una fetta di materia vivente positiva – cioè tendente all’auto-conservazione e quindi alla durata. Il suo cuore è desiderante, cioè conatus, affettività pensante, viva, dinamica. La soggettività è dunque nomadica, in trasformazione perenne e quindi presa in una tensione fondamentale tra il durare e il cambiare. Come trovare un punto di equilibrio tra questi poli mi pare una tensione vitale e creatrice. Il soggetto sostenibile è potentia – desiderio affermativo che s’incontra e si scontra con forze ed entità esterne che tendono a fissarlo, a ‘sedentarizzarlo’, per farlo durare. Il soggetto sostenibile è iscritto nel tempo, nella temporalità generica di un codice genetico che scandisce i tempi e i modi del nostro divenire, ma ne fa anche parte. La filosofia del divenire nomadico non è né l’oscillazione del pendolo delle opposizioni dialettiche, né la rivelazione di un’essenza in un processo, teleologicamente ordinato e che conduca all’instaurazione di un ente egemonico – sia esso l’ego, l’io o la definizione dell’individuo offerta dalla borghesia liberale.

Il divenire consiste piuttosto nell’affermazione della struttura, assolutamente positiva, della differenza, intesa come un processo multiplo e complesso della trasformazione, un flusso del divenire multiplo. Di conseguenza, il soggetto pensante non è né l’espressione di un’interiorità profonda, né la promulgazione dei modelli trascendenti della coscienza riflessiva. Il fatto che questo modello di soggettività sottolinei la complessità e la molteplicità non implica necessariamente un pensiero relativistico nè un conseguente regresso all’infinito del ragionamento logico e morale.

Da un punto di vista più filosofico, penso che l’enfasi posta da Deleuze e Guattari sulla natura incarnata e radicata della soggettività – attraverso la nozione dell’immanenza radicale – conferisca alla loro filosofia una dimensione ecologica. Le affermazioni conoscitive poggiano sulla struttura immanente della soggettività e devono resistere alla spinta gravitazionale verso la trascendentalità astratta. Secondo Deleuze e Guattari, dobbiamo ripensare il soggetto conoscente nei termini dell’affettività, dell’inter-relazionalità, dei territori, delle risorse, delle posizioni e delle forze. Nel fare ciò, ci congediamo dal continuum spazio-temporale dell’umanesimo classico. Similmente, abbiamo bisogno di superare il riduzionismo del costruttivismo sociale, il quale tende a minimizzare la continuità di quei fattori che forniscono le fondazioni empiriche del soggetto e che sono per la maggior parte in relazione con l’affettività e specialmente con la memoria e il desiderio.

La soggettività sostenibile riscrive la singolarità del sé, sfidando al contempo l’antropocentrismo della definizione che le filosofie occidentali danno del soggetto e degli attributi usualmente a lui riservati. Questo senso dei limiti è estremamente importante per prevenire l’auto-distruzione nichilista. Essere attivi e intensamente nomadi non significa essere senza limiti. Voglio invece sostenere che, al contrario, per rendere conto di questa visione del soggetto, intensa e materialmente radicata, abbiamo bisogno di una soglia di sostenibilità. Il contenimento delle intensità o delle passioni incarnate e della loro durata è un prerequisito cruciale al fine di consentire loro di svolgere la propria funzione, la quale consiste nello scagliarsi contro lo schema umanistico del soggetto, portandolo a esplodere verso l’esterno.

La posologia della soglia di intensità è allo stesso tempo cruciale e inerente al processo del divenire. Che cosa è allora questa soglia e come viene fissata? Un corpo radicalmente immanente e intenso è un assemblaggio di forze o di flussi, di intensità e di passione, che si solidificano nello spazio e si consolidano nel tempo, entro quella singolare configurazione che è comunemente conosciuta come un sé ‘individuale’. Questa entità intensa e dinamica – è opportuno sottolinearlo – non è semplicemente il dispiegamento dell’informazione genetica. Si tratta piuttosto di una porzione di forze che è, dal punto di vista spazio-temporale, abbastanza stabile da sostenere e da sopportare il flusso, costante benché non distruttivo, della trasformazione.

Sì, stiamo parlando di mutazione, ma non verso il nichilismo proprio di alcune delle odierne narco-filosofie che celebrano gli ‘stati alterati’ in se stessi. Si tratta di un campo di affetti trasformativi, la cui disponibilità ai cambiamenti di intensità dipende primariamente dall’abilità di sostenere l’incontro con, e l’impatto di, altre forze e affetti.

Si tratta di un vitalismo radicalmente materialista e anti-essenzialista, adeguato all’era tecnologica, che non può essere rimosso ulteriormente dall’illusione della moltiplicazione ostinata delle incarnazioni dell’immaginario contemporaneo, tecno-teratologico o cyborg. La visione del soggetto deleuziana, incarnata e vitalistica, ma non essenzialista, è una visione che si auto-sostiene e che è davvero debitrice nei confronti del progetto di un’ecologia del sé. Il ritmo, la velocità e la sequenza degli affetti, così come la selezione delle forze, sono determinanti per il processo del divenire. Lo schema della ricorrenza di questi cambiamenti segna i passi successivi del processo, consentendo così l’attualizzazione di quelle forze che sono adatte a dare forma, e quindi ad esprimere, la singolarità del soggetto.

Questo rappresenta un modo di contenere i margini eccessivi dell’odierno discorso circa i tecno-corpi, discorso che nega la materialità del corpo stesso in virtù della fantasia di fuga verso la tecnologia. Inoltre rende intelligibili le potenti mutazioni che stanno avvenendo. Deleuze propone una forma di neo-materialismo e una mistura di vitalismo che trovo adeguate all’era tecnologica. Quanto voglio sostenere, ad ogni modo, è che pensare attraverso il corpo, e non in fuga da esso, significa confrontarsi con i confini e le limitazioni.

Crispino. Se guardiamo allo scenario del tardo capitalismo avanzato, sembra essersi aperto un baratro tra coloro che possono rivendicare e giocare la propria soggettività e coloro cui questa soggettività è negata – ‘corpi a perdere’, li definisci – e parliamo di migranti senza diritti di cittadinanza, persone, donne e bambini, oggetto di tratta, lavoratori e lavoratrici clandestini e supersfruttati e così via. Un tempo si sarebbe parlato di reificazione o mercificazione del corpo: come hai lavorato a un discorso epistemologico – ed etico – che renda conto e ci faccia assumere la responsabilità di questa forbice apparentemente irriducibile?

Braidotti. Uno dei paradossi della nostra condizione storica è lo svilupparsi simultaneo di tendenze contraddittorie. La globalizzazione ha innescato un processo di mondializzazione negativa, nel senso di averci unificati a livello di un conformismo crescente nei consumi, negli stili di vita, nella dipendenza dalle nuove tecnologie, ma anche nella paura e nell’ansietà che sono al centro dell’economia politica dell’affettività nella società odierna. Abbiamo tutti paura – viviamo tutti in attesa del prossimo boato. Pan-umanità sì, ma in negativo: pensiamo agli attentati terroristici, ma anche alle nuove epidemie, ai cambiamenti del clima e quindi del nostro ambiente. Il mondo si è certamente rimpicciolito, ma la prossimità non produce né fratellanza o sorellanza, né uguaglianza, né amore dell’altro. Anzi.

Questo è il paradosso: globalizzazione significa anche frammentazione e il riaffiorare di differenze etniche, razziali ma anche sessuate, a micro-livelli e non solo tra i grandi blocchi geo-politici, ma anche all’interno di essi. È un’epoca di micro-belligeranza diffusa: centinaia di ‘piccole’ guerre – locali, però mondiali. Dopo il post-moderno viene un mondo in cui periferia e centro, cultura occidentale e cultura islamica, medesimo e altro si contrappongono in maniera così complessa da sfidare modi di pensiero dualistici od oppositivi, richiedendo un’articolazione più sottile e dinamica.

Credo che questa situazione storica comporti una visione della soggettività che include infinite posizioni liminali occupate dagli ‘altri costitutivi’: le donne, gli altri etnici o razzializzati e l’ambiente naturale sono tre facce interconnesse della differenza strutturale, le quali simultaneamente costruiscono la visione dominante del soggetto e sono incluse in essa. Come tali, giocano un ruolo importante, sebbene speculare, nella definizione della norma e della visione normativa del soggetto. Esse rappresentano una categoria delle alterità sottovalutate che storicamente sono state percepite come differenti nel senso di essere ‘meno di’. Come ho scritto nei miei due ultimi libri, questi ‘altri’ strutturali riemergono nella post-modernità in quanto indicatori, espressioni e sintomi – qualcuno direbbe in quanto ‘causa’ – della crisi, in un’era in cui il progetto della modernità mostra una grande tensione, se non addirittura un’effettiva spossatezza. Nella loro rilettura ‘del capitalismo e della schizofrenia’ Deleuze e Guattari si schierano contro l’uso peggiorativo della ‘differenza’. Essi propongono anche una rilettura potente, affermativa e, a mio parere, veramente necessaria della soggettività dopo il declino del paradigma umanistico. Significativamente, Deleuze e Guattari parlano della loro nuova visione nei termini di ‘eco-filosofia’. Ciò va primariamente interpretato come una svolta che si allontana dall’antropocentrismo alla volta di una nuova enfasi sull’inestricabile relazione tra le forze materiali, bio-culturali e simboliche. Si tratta di un egualitarismo bio-centrato che Deleuze definisce audacemente ‘forza vitale’.

Nella tarda post-modernità, le differenze trionfano sul modello pluralistico o quantitativo – ma solo perché lasciano intatte le strutture di dominio e di potere. In questo senso il mio progetto s’iscrive nella continuità di quella che era la sinistra storica, ma cerca d’innovarla e aggiornarla alla luce delle complessità odierne. Le frontiere dell’alterità, che erano state fissate e salvaguardate dall’ontologia politica dialettica dell’opposizione Medesimo/Altro vengono scardinate. Pensiamo alle donne; ai soggetti di colore o razziali/post-coloniali; e all’altro tecnologico: invece di essere portatori di differenza come progettualità positiva, questi ‘altri’ si sono integrati nella logica del capitalismo avanzato nella forma più mercantile e banale del termine. Pensiamo al ruolo delle donne nell’esercito – specializzato e privatizzato – degli Stati Uniti; o alla posizione storica di ‘gente di colore’ ormai trionfalmente simbolizzata da Barack Obama, ma anche, e prima, da figure come Condoleeza Rice, Michael Jordan o Tiger Woods – che sono pezzi integrali del capitalismo globale e, pur tuttavia, ‘gente di colore’. Una cosa e il suo contrario sono simultaneamente veri. Nell’epoca della mondializzazione, le differenze sono diventate funzionali al ritorno della logica del Medesimo, dell’uguale-a-sé, che ripete il peggio del regime fallo-logo-centrico.

La cannibalizzazione del potenziale positivo dell’alterità è – a mio avviso – al centro delle grandi narrazioni contemporanee ed è perciò un principio strutturante del nostro mondo.
Mi sembra quindi che il problema di fondo sia riuscire a pensare la diversità in un linguaggio che non sia segnato dalla logica di annientamento dell’alterità come frontiera aperta. Nella sua enorme perversità, il capitalismo come economia politica del profitto a ogni costo ha saputo adattarsi all’esplorazione delle frontiere dell’alterità con molta più flessibilità di quanto sia stato capace di fare il pensiero critico, o la sinistra politica nel suo insieme. Il che non sorprende, visto che la sopravvivenza stessa del sistema del profitto dipende proprio dall’esattezza delle sue mappature della realtà. In un certo senso, la logica politica del capitalismo avanzato si è evoluta dal cannibalismo metafisico della formula classica ad una forma più diffusa e mercantile di ‘consumo degli altri’. Le differenze – che proliferano e pullulano su scala globale – sono diventate semplicemente beni di consumo. Pensiamo alla world-music, alla cucina-fusion, alle mode ibride che dominano il nostro universo, ove regna un nomadismo generalizzato che si incarica di far circolare i capitali e le merci con molta più mobilità di quanta ne disponga la massa delle persone, specialmente la forza lavoro.

È in questo senso che affermo che viviamo in un regime di schizofrenia diffusa ove regnano i paradossi di processi economici, sociali e politici altamente contraddittori tra di loro. Per esempio, da una parte un grande conformismo nella scelta dei consumi dei trend, dall’altra, grandissimi dislivelli e divari sociali ed economici, dominati da forme di discriminazione crescenti. Dal punto di vista filosofico, come da quello politico, una grande contraddizione della nostra epoca è che questa celebrazione interessata della differenza come capitale è accompagnata dal rifiuto dei pensieri radicali della differenza che puntavano a farne uno strumento di trasformazione dei parametri stessi della soggettività. In questo contesto di frammentazione del soggetto, ma anche di irrigidimento degli assi di discriminazione, si pone un quesito fondamentale: quello, come ho già detto, del ‘come fare?’.
Che non è il ‘che fare?’ di Lenin, ma tutt’altra cosa, che si ricollega sia alla soggettività che alle sue strutture affettive. Come fare per reggere le contraddizioni, le forze d’urto, i paradossi della nostra epoca? Per tenere duro? Per far fronte all’accelerazione dei cambiamenti?
Fin dove si può arrivare? Di cosa siamo capaci? O come disse Deleuze, parafrasando Spinoza: fin dove reggeranno i nostri corpi, cioè la nostra soggettività concreta? Dove sono i nostri limiti? Ecco la dimensione etica che fa capolino al di là della massa di frammenti dell’epoca della post-modernità, cioè: quali norme e valori possiamo applicare alla ricerca di un nuovo senso della misura, cioè dei limiti? Che non siano né quelli della morale dominante, né quelli dell’anarchia rivoluzionaria? Come pensare ai limiti non come frontiere, ma come soglie che si aprono verso orizzonti da scoprire, da esplorare?
Soglie viventi, e non mura fisse. È per questo che io credo che un’etica della sostenibilità sia essenziale come principio regolatore della soggettività politica nomade, del femminismo.

Crispino. Aggiornare continuamente le ‘cartografie’ del presente fa parte della tua pratica di pensiero e della tua proposta di etica politica: una pratica per assumere la complessità, che sembra andare in assoluta controtendenza rispetto ai processi di semplificazione e riduzione delle complessità che caratterizzano, mi pare, le organizzazioni politiche che abbiamo ereditato dal Novecento, come i partiti e le varie componenti del sistema istituzionalizzato di democrazia rappresentativa. Nel caso del pensiero femminista la mancanza di interlocuzione è vistosa e produce danni. Penso, per quel che riguarda l’Italia ad esempio, all’ottusa sordità di tutti i partiti, compresi quelli della sinistra, alle analisi e alle proposte politiche delle donne sui temi del corpo e della bioetica: aborto – vedi le continue minacce alla legge 194 –, riproduzione – vedi la pessima legge 40 sulla riproduzione assistita, confermata da un referendum. Ma si potrebbe parlare anche delle mancate risposte all’intensificarsi della violenza sulle donne, della incapacità di un serio dibattito sulle unioni omosessuali e, più in generale, del modo del tutto insoddisfacente con cui si sta affrontando la questione del ‘testamento biologico’ e della scelta sulla propria morte. Per non parlare dei mezzi con cui si affronta, in Italia e altrove in Europa, la questione delle migrazioni: il Mediterraneo, e lo stretto di Sicilia in particolare, sono ormai una grande tomba comune dei senza nome e senza terra, ‘corpi a perdere’, anzi già persi. Quali effetti può avere questa pratica ‘riduzionistica’ sul futuro dell’Europa, che tu pure consideri il luogo meglio attrezzato – per storia e pratiche di pensiero – ad affrontare il prossimo futuro con qualche speranza?

Braidotti. Per riuscire a formulare un’alternativa alla visione xenofobica della ‘Fortezza Europa’ serve un progetto politico all’insegna della diversità, del multiculturalismo e della convivialità cosmopolita. Seguendo l’opera di esponenti del pensiero post-coloniale quali Gayatri Spivak, Stuart Hall, Paul Gilroy e altri, ritengo che, da un punto di vista europeo, uno degli effetti più significativi della post-modernità sia la natura trans-nazionale dell’economia, il che implica anche il fenomeno della trans-culturalità, ovvero l’avvento di un contesto multietnico o multiculturale. È in corso un processo di ibridizzazione in un contesto di razzismo crescente. Il fenomeno della migrazione su scala mondiale – un immenso movimento di popolazione dalla periferia verso il centro – costituisce una sfida alla presunta omogeneità culturale degli stati-nazione europei. Questo nuovo contesto storico ci impone di spostare l’oggetto del dibattito politico dalle differenze tra le culture alle differenze all’interno di una stessa cultura. Il movimento femminista è particolarmente consapevole di questa necessità.

Uno dei paradossi centrali della condizione storica post-moderna è costituito dai terreni instabili di dibattito su cui periferia e centro vengono posti l’una contro l’altro in maniera così diabolicamente complessa da sfidare modi di pensiero dualistici od oppositivi. Mi sembra quindi che la questione dirimente non sia tanto il ‘rispetto’ della diversità, quanto riuscire a pensarlo all’interno di un linguaggio che è segnato a fuoco dal codice fallogocentrico, cioè dalla logica dell’opposizione Medesimo/Altro e del consumo e dominio degli ‘altri’.

Un valore essenziale di questa mutazione è la necessità di superare l’etnocentrismo bianco. Se c’è una cosa che l’Occidente ha dato al mondo è una grande produzione discorsiva su questa differenza metafisicamente fondata, che polarizza il centro e la periferia, l’europeo e il barbaro, il maschile e il femminile, e attraverso questa polarizzazione produce senso, discorsività e governabilità. Io penso che, per quanto indebolita, la matrice europea continui a farsi sentire proprio nel discorso della crisi attuale, come continua a esprimersi nell’abitudine che persiste a situare le origini della nostra cultura nel mondo greco-latino, staccandolo completamente dall’ambito mediterraneo, cioè arabo e africano, al quale chiaramente invece il pensiero greco appartiene. Questo linguaggio continua a produrre dualismi del tipo io/te, soggetto/oggetto, maschile/femminile, come se le trasformazioni sociali e il progresso storico non incidessero minimamente sulla sua logica e il suo funzionamento. Occorre dunque una rivoluzione delle strutture simboliche nel loro insieme. Occorre un altro linguaggio.

Come ho già spesso ribadito, se la differenza sessuale non ci permette di pensare tutte le altre differenze, a partire da quelle di razza, ma anche quelle di classe, di nazionalità e cultura, di preferenze sessuali, di scelte di vita; se la differenza non si apre sull’orizzonte delle differenze che differiscono tra di loro, non farà altro che ripetere una delle mosse più classiche del sistema metafisico occidentale: l’elevazione della dicotomia sessuale maschile/femminile al rango di principio generale e concetto fondatore.

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