CORPO

Da Emmanuel Bonsu, fermato e picchiato dalla polizia di Parma e poi descritto come ‘negro’ in un’annotazione riportata sulla busta che conteneva i suoi effetti personali al momento del rilascio, alla donna non altrimenti definita se non come «giovane prostituta nigeriana fermata a Parma e fotografata in cella stesa a terra, mezza nuda, sporca di polvere» («La Repubblica», 12 agosto 2008): le cronache italiane di fine estate ci hanno consegnato alla memoria immagini di corpi sottoposti alla violenza di modalità definitorie che vogliono ridurli a categorie generalizzanti (‘negro’, ‘prostituta nigeriana’) e che, privandoli della loro singolarità, li condannano alla materialità della loro esistenza.

Emmanuel Bonsu, così, è diventato sulle pagine dei giornali il corpo (l’occhio tumefatto) su cui la polizia aveva fatto violenza fisica, prima ancora che etica, in funzione di e in base all’epiteto razzista che lo ha identificato. E la vita della giovane donna proveniente dalla Nigeria, di cui non è stato diffuso un nome o l’immagine di un volto, è sembrata esaurirsi nella brutalità sessista esercitata sulla materialità del suo corpo.

Si è discusso a lungo della ‘verità’ di queste immagini; l’autenticità o la falsificazione sono diventati i parametri che hanno guidato la riflessione collettiva. Ma lo scandalo di queste immagini, l’inaccettabile, non sta tanto, o non solo, nell’accertamento della violenza fisica che viene mostrata e che si aspira a documentare. Quella violenza c’è stata, non c’è dubbio, ma non si è rivolta solo contro la fisicità di quei corpi. I corpi vivono, certo, della loro materialità, del loro bisogno di cibo e di acqua, di movimento e di riposo, dell’apertura al piacere e della vulnerabilità alla violenza e al dolore. Tutto questo è innegabile. Ma – ce lo ha insegnato Judith Butler – è tatticamente importante, cruciale, oserei dire, non fermarsi a questa constatazione, per provare a interrogare invece costantemente le formazioni discorsive che costruiscono tale materialità, che permettono che un certo tipo di violenza abbia luogo. Si può provare a guardare alla materialità stessa come costruzione; anzi, proprio come a una costruzione-limite di ciò che viene posto come fondamentale, originario, irriducibile, e dunque indiscutibile, intoccabile. Perché, invece, è lì, nella critica lucida e disincantata delle strategie che inscrivono i corpi nelle norme attraverso cui essi diventano o non diventano intelleggibili, che si aprono le possibilità di immaginare e di pensare altre norme, altre posizioni di intelleggibilità. Fermarsi alla materialità significa impedirsi di pensare altrimenti, significa bloccare l’immaginazione di altre possibilità, significa precludersi la facoltà di vedere ciò che potrebbe essere un a-venire, ciò che non è ancora e che ancora non possiamo neppure anticipare.

Critica, dunque, e immaginazione. Questo sembrano chiederci le immagini di coloro che sono continuamente costruiti/e come gli altri/le altre e le rappresentazioni del loro ‘dolore’; rappresentazioni che in questi ultimi mesi in particolare sembrano, invece, voler costringere chi vive in Italia a mettere in gioco dispositivi di esclusione e inclusione, di costruzione delle identità collettive e delle alterità necessarie a definire le capacità di immunizzazione di una comunità (quella nazionale italiana, che non smette di asserire se stessa). Mi sembra che per uscire da questi meccanismi, per riuscire a pensare diversamente e a immaginare diversamente il futuro, prese d’atto, constatazioni e denunce non bastino più. Soprattutto quando sono in gioco vite che devono e dovranno poter dare conto di sé, andare al di là della riduzione a corpi che non parlano, ma di cui si parla.

Con un discorso complesso, volutamente non riconducibile a generalizzazioni e schematizzazioni, l’intervento di Judith Butler ripreso in questo fascicolo ci dà suggerimenti originali, non scontati, su come maneggiare nei nostri modi di pensare la questione dei corpi, delle loro rappresentazioni, della violenza su di essi, andando oltre la constatazione della materialità irriducibile e la denuncia della violenza.

La giovane donna senza nome di cui abbiamo visto frammenti di corpo, gambe nude, braccia abbandonate, uno scorcio del tronco, entra, sotto l’etichetta di ‘prostituta’ (e di ‘immigrata’), nella rete di costruzione delle norme eterosessuali, può subire quell’abiezione perché la sua vita è ridotta a essere intelleggibile solo in quel dispositivo che la riduce a corpo. E il dispositivo a sua volta vive e si rafforza attraverso la costruzione della materialità del suo corpo di donna nei termini univoci di oggetto e strumento del desiderio maschile eterosessuale normativizzato, per definizione esposto alla violenza («Credo che questa donna non sia mai stata trattata così bene come [la sera del fermo]», ha commentato l’assessore alla ‘sicurezza’ del Comune di Parma – e io mi astengo dal commentare parole come queste).

Alla costruzione di genere si intreccia quella della razza, più esplicita, certo, nel caso di Emmanuel Bonsu, ma profondamente attiva anche per la giovane donna. Non è un caso che le immagini iconiche dell’estate appena trascorsa siano quelle di questi due corpi razzializzati, mostrati ed esibiti nel processo che costruisce il loro inserimento nella categoria stessa della razza. Certo, la costruzione della razza non può essere semplificata fino a diventare un’analogia della costruzione del genere – anche questo ce lo ha insegnato Butler. Modalità, dispositivi e strategie ogni volta differenti sono all’opera in quella che è piuttosto un’articolazione complessa, da leggere attraverso lenti e filtri molteplici. E in questo numero Butler ci fa vedere come, nel caso della violenza commessa dalla polizia di Los Angeles su Rodney King e ripresa in un video (caso molto famoso e discusso, che diede origine alle rivolte urbane del 1992, quando fu pronunciato il verdetto di innocenza nei confronti dei poliziotti), si mise all’opera un’articolazione peculiare di razzismo e omofobia. La tesi abbracciata dai giurati fu infatti quella di una minaccia che il corpo di Rodney King poneva ai poliziotti e che avrebbe giustificato la loro violenza come legittima difesa. Questa tesi si basava su una lettura quanto meno opinabile di un video che mostrava il corpo dell’afroamericano circondato da poliziotti che si accanivano su di lui con i manganelli. La vulnerabilità del corpo di Rodney King venne trasferita dai giurati a loro stessi, costruita come fondamento e giustificazione degli schemi di razza e genere che la inscrivono. C’era in quel caso un corpo su cui materialmente si fece violenza, ma ci fu anche, soprattutto, una violenza etica che derivò dal rendere naturali e neutrali le costruzioni di quella materialità. È in fin dei conti la stessa minaccia costituita dal fatto che Emmanuel Bonsu era seduto, con il suo corpo, razzializzato, su una panchina in un parco di Parma, a costituire la giustificazione alla violenza commessa dai poliziotti italiani in nome della ‘sicurezza’, dello scongiurare un pericolo che quel corpo con la sua presenza poneva. Quale pericolo? Quello costruito dalla paranoia omofobica che legge le intenzioni di un corpo ‘negro’ prima di ogni gesto come minaccia alla incontaminatezza del corpo bianco; e dunque le ragioni della polizia come quelle di chi impedisce che questa barriera sia superata, la violenza della polizia come assenza di violenza e legittima difesa.

Che fare davanti a tutto questo, dunque? Prendo in prestito le parole di Butler: «È necessario leggere non solo in funzione dell’‘evento’ della violenza, ma anche in funzione dello schema razzista che orchestra e interpreta l’evento, il quale espunge l’intenzione violenta dal corpo che la esercita e la attribuisce al corpo che la riceve». Sapere, dunque, che i corpi e le loro rappresentazioni non sono mai dati incontrovertibili, che sono già sempre presi in reti complesse che implicano schemi di lettura dove genere e razza si intrecciano, che la denuncia che si limita a riaffermare la materialità dei corpi, che non riesce a vedere le costruzioni in atto attorno a quei corpi, rischia di diventare inavvertitamente complice. E sapere che, insieme alla critica, è necessario mettere all’opera l’immaginazione affinché altri schemi di lettura e di azione diventino possibili.

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