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«Il linguaggio del nostro popolo basso è doppio, con le parole, e co’ gesti. Questo secondo è pieno di grazie, e filosofia insieme. È sorprendente il vedere due persone, le quali in distanza, e fra il chiasso delle più popolate strade di Napoli si parlano fra di loro, e si comprendono bene».
Così scriveva nel 1819 Andrea de Jorio (Procida 1769 – Napoli 1851), l’archeologo napoletano che si era proposto di dimostrare la persistenza della gestualità greca in quella dei moderni abitanti di Napoli (cfr. La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano, 1832, rist. anast. 1979; una versione on line in pdf è disponibile su: http://books.google.it).
Le attente osservazioni di de Jorio descrivono come i gesti fossero usati nella vita quotidiana e come fossero parte di un rapporto di interazione condiviso. «De Jorio insistette sul fatto che non si possono comprendere i gesti da soli. Per interpretarli in modo corretto è necessario comprendere pienamente il contesto in cui sono adoperati» (A. Kendon, Il gesto e Napoli, 2005; testo di accompagnamento alla relazione presentata al Padiglione Arte Napoli, nell’ambito dell’esposizione ‘Artefactory 41.14’, 11 giugno 2005). Nel libro La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano, de Jorio fece inserire una serie di tavole che illustrano scene di vita quotidiana a Napoli, in cui si mostra l’uso dei gesti. Nel 1958 Bruno Munari, inconsapevole forse dell’esistenza del libro di de Jorio, ma convinto che la gestualità comunicativa napoletana potesse essere correttamente estesa a tutta l’italica nazione, compilò per i tipi di Carpano un fondamentale e insuperabile Supplemento al dizionario italiano (oggi disponibile in libreria per le Edizioni Corraini). D’altronde, il parlare coi gesti e il parlare figurato sono da sempre conosciuti e praticati da chi ha difficoltà o impossibilità ad usare la voce, per problemi fisiologici (mutismo) o per il fatto di trovarsi in particolari contesti (ad esempio i marinai che comunicano a distanza, i vigili che dirigono il traffico…).
La necessità di comunicare attraverso forme diverse dal linguaggio verbale e alfabetico, e di farlo sempre più dove le relazioni sono complesse e le interazioni infinite, ha portato a uno sviluppo dinamico della progettazione di sistemi di codificazione accessori e per immagini. Leggere sullo schermo di un computer le procedure di un programma, individuare la corretta direzione in un ospedale o in un aeroporto, muoversi in un parco o leggere un manuale di istruzioni sono operazioni che sempre più vengono svolte attraverso l’ausilio di sistemi di segni e icone, che hanno una funzione sintetica e facilitante.
L’innovazione per il design della comunicazione è strettamente correlata alla necessità di affrontare in termini progettuali nuovi e consapevoli i problemi e le domande relativi a questi ambiti e a contesti eminentemente tecnici. È un’area della grafica orientata al progetto di artefatti in grado di tradurre visivamente l’utilità, la chiarezza, la decifrabilità senza malintesi dei messaggi, nello specifico di informazioni. Questo campo professionale viene oggi riconosciuto con il nome di information design. Esso consiste innanzitutto nella progettazione delle relazioni, prima ancora che nella vestizione dei messaggi, e proprio per questo sta diventando sempre più attuale e centrale nel nostro contesto disciplinare. L’affascinante ruolo di traduttore e facilitatore delle informazioni che viene affidato al grafico e al designer deve molto al sociologo e filosofo austriaco Otto Neurath (1882-1945), che nel 1936 ha introdotto l’Isotype (International System of Typographical Picture Education), un sistema di pittogrammi e codici visivi che avevano lo scopo di facilitare la divulgazione di dati scientifici (cfr. International System of Typographical Picture Education, a cura di M. Piazza e D. Turchi, in «Progetto Grafico», 2, 2003). Secondo Neurath, visualizzare e rendere facilmente comprensibile un dato statistico o il confronto di diversi fenomeni e andamenti sociali era in primo luogo un atto di grande democrazia e allargamento del sapere. L’Isotype formalizza quindi una sorta di linguaggio figurato, normalizzato e codificato, da usare per tali fini. Neurath considerava i designer come degli intermediari (i concreti trasformatori) tra economisti, storici, scienziati, matematici e i loro fruitori. Questa intuizione, perfezionata nel tempo, ha anticipato e definito regole utili a far sì che icone e pittogrammi diventassero idiomi il più possibile universali ed entrassero nella vita di tutti i giorni. Oggi il pittogramma di un omino monocromatico su una porta in una stazione è da tutti decodificato come la toilette per uomini. Oggi siamo abituati a guardare e comprendere le dinamiche di un evento, di un crimine o di un’operazione finanziaria dalle visualizzazioni sinottiche e sequenziali sulla pagina di un quotidiano, senza bisogno di leggere un articolo. Oggi siamo in grado di orientarci in un aeroporto internazionale seguendo le icone che istruiscono i flussi e gli spostamenti. Oggi nessuno si stupisce più della non corrispondenza fra i punti delle stazioni in una mappa della metropolitana e la loro reale distanza fisica e geografica. Ma è proprio nel nuovo assetto delle competenze e delle relazioni fra saperi e fruitori che troviamo la ragione di un più consapevole esercizio professionale. La grafica deve essere capace di costruire un ponte tra i contenuti e le forme e, per farlo, deve non solo conoscere i linguaggi espressivi più adeguati, ma anche avere una capacità di indagine e controllo del significato dei messaggi. Solo così si potrà ottenere una buona ‘info-grafica’ per i quotidiani, le riviste e l’editoria specialistica (manualistica, scientifica, finanziaria, ecc.), o per i sistemi di interfaccia e di messa a punto visiva dei comandi, o per i sistemi di codificazione di mappe e cartografie, o per quelli di orientamento nello spazio abitativo, commerciale, urbano e ambientale, o per efficaci sistemi di navigazione in rete. Solo così riusciremo a leggere non come belle illustrazioni le tavole a colori dei quotidiani, o come mere decorazioni le immagini dei testi per la scuola dell’obbligo, o a usare con più semplicità e sicurezza utensili e macchinari, o a far sì che le informazioni nello spazio (fisico o virtuale) evitino la ridondanza e il disturbo visivo. Solo così ci si può aprire verso forme di relazione e interazione, e quindi di trasmissione, innovative e condivise. I progetti di information design devono contenere sempre un DNA educativo, una dote di alfabetizzazione interna, che consenta un facile percorso di appropriazione da parte dei fruitori. Allora potremo sfruttare più pienamente quel fantastico strumento che è il nostro cervello.

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