MARGINE

In anni a noi vicini – diciamo pure, per maggior precisione, negli ultimi quindici anni – la ricerca sulla mortalità e l’invecchiamento ha progressivamente concentrato i suoi interessi e i suoi sforzi sullo studio delle età estreme, di quelle età, cioè, superiori ai 100 o ai 110 anni. Cercherò qui di rintracciare le ragioni che hanno portato a questo esito e allo stesso tempo di chiarire perché la dinamica della mortalità alle età estreme sia così importante per la comprensione della mortalità e della senescenza in generale.
Le ragioni per cui demografi, gerontologi, biologi, epidemiologi hanno iniziato a interessarsi a questo aspetto sono in effetti innumerevoli: è probabile che l’origine di tale cambiamento debba essere rintracciato in ragioni di carattere eminentemente storico. È noto, infatti, come a partire dalla seconda metà del XVII secolo e fino all’epoca attuale la mortalità generale dei paesi europei abbia subito una progressiva riduzione, dovuta essenzialmente – fino alla metà circa del XX secolo – alla riduzione della mortalità alle età più basse, ovvero alla riduzione della mortalità infantile e dei bambini. A partire dal secondo dopoguerra accade tuttavia che l’innalzamento generale della speranza di vita in questi paesi risulti sempre più determinato dalla riduzione delle probabilità di morte alle età adulte e, soprattutto, dalla riduzione di quella che i biologi chiamano post-reproductive mortality. Quest’ultimo processo è divenuto talmente intenso da far ritenere ad alcuni fra i maggiori specialisti di questi argomenti che la metà dei bambini di oggi raggiungerà in futuro l’età di 100 anni.
Mentre tuttavia le cause che hanno portato alla riduzione della mortalità infantile e dei bambini sono, almeno nelle linee generali, note e possono essere ricondotte quasi interamente alla vittoria ottenuta sulle malattie infettive, le ragioni della riduzione della mortalità alle età più elevate rimangono invece ancora in parte oscure. Molti studiosi, infatti, non ritengono che l’incremento della speranza di vita alle età adulte possa essere interamente spiegato attraverso i progressi fatti dalla medicina nella cura dei tumori, degli infarti e del diabete, le prime tre cause di morte alle età adulte. È dunque naturale, dato questo stato di cose, che lo studio della mortalità si sia spostato sull’andamento della post-reproductive mortality, e tuttavia ciò non spiega ancora perché l’attenzione si sia focalizzata sulle età superiori ai 100 anni.
Un’altra ragione per questo spostamento di interesse può essere rintracciata nel desiderio di individuare quei fattori di carattere ambientale, comportamentale o genetico che sono alla base della longevità: in società che invecchiano rapidamente, come quelle in cui la maggior parte della popolazione mondiale oggi vive, risulta infatti naturale domandarsi quali siano le cause che permettono ad alcuni individui di vivere più a lungo di altri, perché scoprire tali cause può far sì che tutti in futuro possano vivere più a lungo.
Su queste basi sono stati messi in piedi grandi progetti di ricerca – come quelli sui centenari sardi, giapponesi e cinesi – che si sono concentrati su popolazioni particolarmente longeve, cercando di individuare le ragioni di questo straordinario allungamento della vita. Non dimentichiamo poi che un problema intimamente connesso a questi studi è quello dei limiti della vita umana, ovvero se esista un’età oltre la quale gli esseri umani non possono vivere.
Non pare tuttavia che al momento tali ricerche abbiano prodotto i frutti inizialmente sperati. I risultati raggiunti sembrano infatti indicare che la longevità sia il risultato di una molteplicità di fattori diversi, ciascuno dei quali gioca un suo piccolo ruolo. Si consideri, ad esempio, un fatto noto da tempo: la speranza di vita di un individuo, ceteris paribus, risulta influenzata dal mese in cui è nato. Gli individui nati ad agosto, ad esempio, in una data popolazione, possono vivere un po’ di più rispetto a quelli nati a gennaio, a causa delle migliori condizioni climatiche. La differenza in termini di speranza di vita è poca cosa, solo alcuni mesi, eppure è tale da risultare significativa in termini statistici. Ciò che questo fatto rivela è che piccole differenze iniziali, come l’essere nati a gennaio o ad agosto, possono venire ‘ricordate’ per molti decenni producendo piccole variazioni finali, e che la mortalità è un processo non-stazionario, in cui cioè ogni shock subito, ogni raffreddore, ogni polmonite, determina un piccolo effetto finale sull’età a cui si morirà, anche se lo shock è avvenuto molto tempo prima.
Altri importanti risultati riguardano l’assenza di un meccanismo biologico di limitazione della vita umana. L’età alla morte, in base alle conoscenze attuali, non sembra programmata da un punto di vista genetico: il processo di invecchiamento – e dunque la morte che ne costituisce l’esito finale – sembra piuttosto derivare da un progressivo processo di accumulo di errori nelle macromolecole che costituiscono le cellule dei nostri organismi, e dal progressivo indebolimento dei sistemi preposti alla riparazione di questi errori.
Confronti condotti sulla mortalità di gemelli omozigoti ed eterozigoti, hanno infine permesso di determinare come il nostro patrimonio genetico possa spiegare tutt’al più la metà delle differenze osservate nella longevità, mentre l’altra metà può essere spiegata solo in base a ragioni di carattere ambientale o comportamentale.
Ciò che quindi pare emergere è che la mortalità è determinata dall’accumulo progressivo di eventi accidentali: non sembra dunque esistere alcuna erba, alcun elisir, in grado di arrestare questo fenomeno.
Nonostante tali conclusioni, le ricerche sui centenari hanno continuato il loro corso e, anzi, l’interesse per questa particolare sotto-popolazione è aumentato con il passare del tempo anziché scemare, come era legittimo attendersi. La ragione di ciò può essere rintracciata nel fatto che si crede che tali studi possano rispondere ad alcune importanti domande sul rapporto che intercorre fra la mortalità e l’età. Sebbene nel corso dei secoli siano stati proposti innumerevoli modelli matematici per lo studio di tale rapporto – un recente articolo ne conta più di 300 – uno fra questi, il cosiddetto modello Gamma-Gompertz, elaborato nel 1979, risulta avere un posto d’onore. È difficile sottostimare la sua importanza e le sue ricadute empiriche: basti dire che è attraverso di esso che vengono oggi stimate le probabilità di morte individuali e gli effetti delle diverse cause. Tali stime entrano poi negli uffici delle compagnie assicuratrici, o in quelli degli istituti di sanità, andando così a costituire gli elementi fattuali su cui vengono elaborate le polizze assicurative o le politiche sanitarie nazionali e internazionali.
Questo modello si regge, in ultima analisi, su due semplici ipotesi: attraverso una prima ipotesi si suppone che all’origine del processo (diciamo, per semplicità, all’età 0) ogni individuo della popolazione sia caratterizzato da una sua particolare probabilità di morte diversa da quella di ogni altro individuo. Attraverso una seconda ipotesi si stabilisce, invece, che l’evoluzione della mortalità in funzione dell’età sia la stessa per tutti gli individui. In sostanza, dunque, il livello iniziale della mortalità cambia da individuo ad individuo, ma il modo attraverso cui la mortalità cresce al trascorre del tempo (età) a partire da questo valore iniziale, è lo stesso per tutti gli individui. In termini più rigorosi, il modello Gamma-Gompertz stabilisce che la distribuzione iniziale delle probabilità di morte segue una distribuzione Gamma, e che la mortalità evolve in funzione dell’età in modo ‘gompertziano’, ovvero secondo una legge esponenziale.
L’aspetto saliente è costituito dal fatto che le popolazioni sono considerate come eterogenee, ovvero come composte da individui con diverse caratteristiche e dunque con differenti rischi di morte. Più importante ancora è il fatto che grazie a questo modello è possibile descrivere come l’eterogeneità della popolazione cambi in funzione del tempo, proprio per effetto del processo di eliminazione per morte. Poiché infatti gli individui più fragili (originariamente associati a più elevati rischi di morte) escono dalle coorti più rapidamente degli individui meno fragili, le coorti tendono a divenire con il tempo sempre più omogenee e meno fragili.
Questo modello è dunque in grado di descrivere in modo analitico l’effetto prodotto dalla selezione degli individui meno fragili.
Uno dei problemi più importanti ad esso connessi è dato dal fatto che le due ipotesi su cui si regge non possono essere verificate direttamente, perché le traiettorie individuali della mortalità sono, come si dice, degli enti non-osservabili. Non è possibile stimare, insomma, a partire dall’osservazione della traiettoria di vita di un singolo individuo le sue probabilità di morte alle diverse età, e questo banalmente perché quell’individuo potrà sperimentare l’evento d’interesse – la morte – una volta solamente. Per tale motivo, per determinare le probabilità empiriche di morte alle diverse età occorre considerare un collettivo di individui e scommettere – senza però avere la possibilità di una verifica diretta – su come le probabilità (teoriche) di morte si differenzino da individuo ad individuo. Il modello Gamma-Gompertz scommette che l’eterogeneità sia adeguatamente descritta da una distribuzione Gamma, ma non può poi verificare direttamente la bontà di questa sua scommessa.
Le due ipotesi del modello Gamma-Gompertz costituiscono in effetti altrettanti postulati per una teoria assiomatica della mortalità su cui riposa la comprensione di fenomeni che altrimenti rimarrebbero senza spiegazione.
Negli anni Sessanta, ad esempio, era stato osservato che le probabilità di morte della popolazione di colore negli Stati Uniti erano generalmente superiori rispetto a quelle della popolazione bianca, e che tuttavia, a partire dall’età di ottant’anni, le probabilità di morte della popolazione bianca sopravanzavano quelle della popolazione nera. Questo fenomeno, che prende il nome di mortality crossover, può essere giustificato all’interno del modello Gamma-Gompertz come un effetto del più intenso processo di selezione sperimentato dalla popolazione nera rispetto a quella bianca.
Un secondo fenomeno che era stato osservato empiricamente, ma per il quale non si sapeva dare alcuna spiegazione, è la cosiddetta legge della mortality compensation (detta anche di Strehler-Mildvan dal nome dei due scopritori): è noto infatti che in quei paesi dove le probabilità di morire sono più alte, la mortalità tende a crescere più lentamente in funzione dell’età, e viceversa. Anche in questo caso il nostro modello è in grado di spiegare tale fenomeno come l’esito di un processo di selezione.
In definitiva, grazie al modello Gamma-Gompertz, è stato possibile prevedere a livello teorico l’esistenza di fenomeni come il mortality crossover o la legge della mortality compensation che poi sono stati effettivamente scoperti dalla ricerca empirica. Per tale motivo esso può essere considerato come il primo tentativo di analisi scientifica di un processo demografico.
In tempi a noi molto vicini, all’interno di tale modello sono state sviluppate delle nuove previsioni teoriche che riguardano il comportamento della mortalità alle età estreme: attraverso alcune dimostrazioni molto complesse, M. Finkelstein, V. Esaulova e T.I. Missov sono stati in grado di mostrare che se le probabilità iniziali di morte in una coorte sono distribuite secondo Gamma e se le probabilità di morte crescono secondo una medesima legge esponenziale (il tempo di raddoppio è costante), allora alle età estreme la mortalità dovrebbe, a livello aggregato, smettere di crescere e si dovrebbe osservare quello che la letteratura chiama il mortality plateau, ovvero una fase terminale di sostanziale stazionarietà delle probabilità di morte.
Molta dell’attenzione rivolta negli ultimi anni allo studio del comportamento della mortalità alle età estreme dipende direttamente da queste conclusioni teoriche, perché se tali deduzioni risulteranno coerenti con il comportamento effettivo della mortalità, allora si potrà dire che il modello Gamma-Gompertz è stato ulteriormente verificato e che le sue assunzioni di base descrivono la ‘vera natura’ della mortalità individuale. Se tali deduzioni si dimostrassero invece in contraddizione con i dati empirici, se cioè la mortalità esibisse alle età estreme un comportamento diverso rispetto a quello previsto, allora questo modello dovrebbe essere rifiutato e cadrebbe così il più importante strumento a nostra disposizione per l’analisi della mortalità.
Nel 2010 un team internazionale di studiosi è stato in grado di produrre le prime misure attendibili sull’evoluzione delle probabilità di morte oltre i 110 anni nelle popolazioni umane. Tali misure sono state rese possibili grazie alla raccolta sistematica di dati di natura aggregata (il cosiddetto database Kannisto-Thatcher) sulla mortalità di innumerevoli coorti vissute in epoche e regioni differenti. Per ciascuna di queste coorti sono stati rintracciati i rarissimi casi di sopravviventi oltre i 110 anni e se n’è analizzata la mortalità. I risultati di questo studio hanno mostrato che tra 110 e 120 anni le probabilità di morte tendono in effetti a stabilizzarsi intorno ad un valore pari a 0,5, qualunque sia l’epoca di nascita degli individui considerati, la loro nazionalità o il loro genere. Sembra dunque che l’ipotesi del mortality plateau formulata all’interno del modello Gamma-Gompertz abbia trovato una sua prima verifica.
A ben vedere tuttavia, la costruzione di questo sofisticato esperimento presenta, nella sua stessa concezione, alcuni elementi di debolezza. Innanzitutto, l’identificazione di un plateau non costituisce un elemento in sé conclusivo: si ammetta pure di riuscire a verificare l’esistenza di un plateau dall’età x all’età w, ciò non potrà comunque escludere che oltre l’età w le probabilità comincino a declinare (come previsto da altri modelli come gli accelerated failure time models).
In realtà sono stati tentati altri esperimenti che sembrano indicare conclusioni opposte rispetto a quelle appena esposte. Prima di presentare questi esperimenti occorre tuttavia precisare che per studiare l’andamento della mortalità alle età più elevate è necessario disporre di coorti di enormi dimensioni; solo in tali coorti si produrranno infatti spontaneamente quelle particolarissime e rarissime combinazioni di fattori sia genetici, sia ambientali, sia comportamentali, che permettono ad un individuo di raggiungere le età estreme. Le coorti umane più ampie che siamo in grado di studiare non comprendono tuttavia più di alcune decine di milioni di individui e fra questi solo alcune decine o alcune centinaia possono sperare di raggiungere l’età di 110 anni. Questo fatto pone un limite oggi difficilmente superabile per lo studio della dinamica della mortalità alle età estreme nella specie Homo sapiens sapiens.
Per analizzare tale fenomeno si è allora pensato di compiere degli esperimenti su specie di insetti, vermi e funghi per i quali fosse possibile sviluppare in laboratorio e seguire nel tempo coorti composte da centinaia di milioni o anche miliardi di individui: osservando questa grande strage di nematodi, moscerini della frutta e funghi del grano si è trovato che nella maggior parte dei casi la formazione alle età estreme del mortality plateau era seguita da una fase di riduzione delle probabilità di morte.
Ancora una volta i risultati sono di difficile interpretazione. Se tuttavia si assume – come sembra concludere l’analisi biologica – che il processo di invecchiamento è prodotto nelle diverse specie dagli stessi fattori, allora l’aver trovato in queste specie di insetti, vermi e funghi, oltre la fase di stazionarietà, una fase di riduzione delle probabilità di morte, risulta essere un’indicazione importante del fatto che la dinamica della mortalità alle età estreme tende a mostrare dei significativi scostamenti rispetto alle predizioni teoriche del modello Gamma-Gompertz.
In conclusione, l’importanza oggi attribuita allo studio della mortalità alle età estreme risiede largamente nella speranza di verificare i postulati su cui si regge una parte importante della nostra comprensione della mortalità e dell’invecchiamento. Le ragioni profonde che hanno indirizzato tanti sforzi verso l’analisi della dinamica della mortalità dei centenari devono dunque essere trovate nella concezione di un esperimento che per complessità e per sofisticatezza non ha eguali nel campo della bio-demografia. Eppure, tale esperimento mostra anche degli elementi di debolezza che dovranno essere corretti, affinché gli esiti risultino pienamente convincenti. Pur assumendo tuttavia che l’intero impianto dell’esperimento sia corretto, e che il suo esito confermi che la mortalità iniziale sia distribuita secondo Gamma, mi pare che qualcosa ancora manchi alle nostre conoscenze sulla mortalità. Qualcosa che forse avrebbe dovuto costituire la nostra prima domanda: perché Gamma?

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