MARGINE

«Or ecco quello ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime, et altre che vi s’avesser potute aggiongere sfere per relazione de vani matematici, et cieco veder di filosofi volgari».
Questo è il Giordano Bruno della Cena de le ceneri (1584). Questo è invece il John Donne dell’Anatomia del mondo (1611): «La nuova filosofia mette tutto in dubbio,/ l’elemento del fuoco è affatto estinto;/ il sole è perduto, e la terra; e nessun ingegno umano/ può indicare all’uomo dove andarlo a cercare./ E liberamente gli uomini confessano che questo mondo è finito,/ dato che nei pianeti e nel firmamento/ ne cercano tanti di nuovi; essi vedono che questo/ si è di nuovo frantumato nei suoi atomi./ È tutto in pezzi, scomparsa è ogni coesione,/ ogni equa distribuzione, ogni rapporto:/ sovrano, suddito, padre, figlio, son cose dimenticate,/ dacché ciascun uomo per proprio conto crede di essere/ divenuto Fenice, e che allora non possa esserci/ alcun altro di quel genere, cui egli appartiene, al di fuori di lui./ Questa è la condizione del mondo ora».
Entusiasmo da un lato e smarrimento dall’altro. In questo groviglio di sentimenti si trovavano gli uomini e le donne tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. Le muraglie dell’universo crollano: Bruno, che è l’artefice del crollo, esplode in un impeto di gioia; Donne, che al crollo assiste suo malgrado, esprime, in versi famosi e bellissimi, tutto il suo sconcerto.
«Come è possibile che l’universo sia infinito?», chiede Elpino – sostenitore delle dottrine cosmologiche tradizionali – nel De l’infinito, universo e mondi (1584), altro testo capitale del Nolano. «Come è possibile che l’universo sia finito?», ribatte Filoteo, portavoce delle nuove dottrine bruniane. Elpino: «Volete voi che si possa dimostrar questa infinitudine?». E Filoteo: «Volete voi che si possa dimostrar questa finitudine?». Ma insomma, sbotta Elpino: «Che dilatazione è questa?». E no, obietta Filoteo, la domanda è piuttosto: «Che margine è questa?». Già, «che margine è questa?», che senso ha questo margine?
I confini dell’universo, che Bruno allarga fino a dissolverli nell’infinito, furono vissuti da molti altri come un antidoto all’angoscia. Questa è la risposta.
Contrariamente a quanto si è creduto per tanto tempo, lo sconcerto di Donne per la nuova cosmologia fu in quel tempo molto diffuso. È indubbio che gli impeti di gioia bruniani trovarono spazio in un’ampia letteratura. Pensiamo, solo per fare un esempio, alla fortunatissima opera di Fontenelle, le Conversazioni sulla pluralità dei mondi (1686). È però altrettanto indubbio che il senso di smarrimento e di paura di fronte alla nuova cosmologia bruniana fu estremamente diffuso. Pascal – siamo alla metà del Seicento – si dice «spaventato» dal «silenzio eterno» degli «spazi infiniti» (Pensieri), così che, per dirla con Borges, «lo spazio assoluto», che rappresentò per Bruno una «liberazione», divenne per Pascal un «labirinto» e un «abisso» (La sfera di Pascal).
La sostituzione dei margini, dei confini, delle muraglie con l’universo infinito e la pluralità dei mondi apriva scenari inquietanti: possiamo continuare a pensare a un universo creato da Dio per l’uomo? Possiamo continuare a pensare all’uomo come signore del creato? E poi: quante volte si è realizzata l’incarnazione? Infinite volte? Se è così, possiamo ancora definirla un miracolo?
Molti di quelli che chiamiamo padri fondatori della scienza moderna rifiutarono con fermezza l’esistenza di un disordine cosmico. Galileo fu tra questi. Keplero, poi, polemizzò aspramente contro il tentativo bruniano di infinitizzazione dell’universo e utilizzò le scoperte galileiane contro Bruno. Keplero era letteralmente atterrito dall’idea di un universo infinito, che gli provocava un senso di disorientamento e di «segreto, nascosto orrore». Si rendeva perfettamente conto che l’accettazione della cosmologia bruniana avrebbe comportato la rinuncia all’antropocentrismo. E all’antropocentrismo non voleva rinunciare per nessun motivo.
In ogni caso, era nata una nuova visione della natura, e del posto dell’uomo nella natura, che trasformava in vuota retorica il discorso degli umanisti sulla dignità dell’essere umano. Questo discorso doveva essere ora riformulato e ripensato in termini nuovi. Questo discorso, a ben guardare, non ha mai smesso di essere riformulato e ripensato. La storia della scienza rappresenta un punto di vista privilegiato dal quale osservare quelle riformulazioni e quei ripensamenti. Per una ragione essenziale. Sono le idee scientifiche che ci hanno obbligato allora e che ci obbligano oggi a ripensare noi stessi.
Mi piace chiudere con Freud e con il suo elenco delle ferite inferte dalla scienza all’universale narcisismo. All’inizio della sua ricerca – scrisse nel 1917 (Una difficoltà della psicoanalisi) – l’uomo credeva che la Terra fosse il centro immobile dell’universo e la centralità del nostro pianeta era per lui il segno della sua posizione di predominio nell’universo. Copernico ha distrutto quest’illusione. Nel corso dello sviluppo della civiltà, l’uomo acquistò una posizione di predominio sulle altre creature, e come se non bastasse scavò un abisso tra la sua natura e quella degli animali. Negò loro la ragione e attribuì a se stesso un’anima immortale avanzando pretese circa la propria origine divina: in altri termini, ruppe il legame di comunanza tra sé e il regno animale. Darwin pose fine a questa presunzione.
Per completezza ricordo quello che per Freud rappresentava la ferita «più tremenda» inferta all’amore che gli uomini portano a se stessi: sebbene umiliato nei suoi rapporti esterni, l’uomo sentiva di essere superiore nell’intimo del suo spirito. La psicoanalisi ha distrutto l’ennesima illusione: oggi noi sappiamo che l’«Io non è padrone in casa sua».
L’elenco di Freud è davvero impietoso. Se poi aggiungiamo la transitorietà nostra e delle cose, sembra che smarrimento e sgomento siano destinati a trionfare. Dico sembra perché in realtà non è proprio così. «Un fiore che viva di notte soltanto non per questo ci sembra meno bello. Né capisco meglio perché la bellezza e la perfezione di un’opera d’arte o di una conquista intellettuale dovrebbe perdere il proprio valore a causa della sua limitazione temporale. […] Una volta terminato il lutto, si vedrà che la nostra alta opinione delle ricchezze della civiltà non ha perduto nulla con la scoperta della loro fragilità. Noi ricostruiremo tutto ciò che la guerra ha distrutto, e forse su basi più durature di prima». Sapete chi l’ha scritto? Freud, nel 1916.

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