MARGINE

1. Uno dei più influenti antropologi contemporanei, lo svedese Ulf Hannerz, ha proposto alcuni anni fa un elenco ragionato di parole chiave utili ad orientarsi nella complessità che caratterizza le società contemporanee. Flussi, confini, ibridi si intitola l’articolo al quale Hannerz affidava la sua proposta, e questo titolo riassume in modo efficace i tre grandi campi metaforici ai quali sono riconducibili molte delle parole cui fanno ricorso gli studiosi contemporanei. Parole che appaiono oggi di fondamentale importanza anche per la ricerca pedagogica che si confronta con le sfide poste da contesti educativi eterogenei come sono quelli attuali.
Una prima famiglia di termini è composta per Hannerz dalle parole che indicano le diverse forme delle varie mobilità contemporanee e i diversi ostacoli che esse incontrano: i ‘flussi’. Alla seconda famiglia appartengono le parole che indicano le diverse forme di continuità e discontinuità che segnano i contesti eterogenei in cui viviamo: i ‘confini’. Alla terza famiglia appartengono le parole che cercano di tratteggiare i molti modi con cui oggi gli elementi culturali e sociali si mescolano non solo a livello sociale, ma anche personale: gli ‘ibridi’. Di ognuna di questa famiglie fanno parte per Hannerz diversi termini, a volte simili fra loro, a volte anche piuttosto lontani, a volte a cavallo fra diverse famiglie (Flussi, confini, ibridi. Parole chiave dell’antropologia transnazionale, 1997; trad. it. in «aut aut», 312, 2002).
Fra queste parole che Hannerz individua come significative per descrivere il mondo contemporaneo c’è anche la parola ‘margine’. E già a questo punto si incontra una prima sorpresa: questo termine è censito da Hannerz fra le parole che indicano il ‘mescolamento’. È una sorpresa perché forse si tende più spesso ad associare la parola ‘margine’ al campo metaforico dei confini e delle frontiere, ovvero di ciò che separa o mette in contatto. Ma in questo caso Hannerz propone un’altra pista: quella della compresenza di più elementi eterogenei fra loro, compresenza che può rivelarsi non solo elemento di esclusione (di ‘marginalizzazione’ appunto), ma anche punto di forza e di arricchimento per chi nel margine si trovi ad abitare.

2. Questa accezione – così carica di suggestioni, ma anche di problemi per chi fa ricerca nei contesti educativi di oggi – viene collegata da Hannerz al concetto di ‘uomo marginale’ proposto tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento da Robert E. Park, celebre sociologo statunitense e padre fondatore di quella scuola di Chicago a cui si sarebbe poi ispirata tanta parte delle ricerche novecentesche sui contesti urbani e sulle diversità che li caratterizzano.
Per Park e per i suoi allievi l’‘uomo marginale’ è colui che vive nel medesimo tempo «in due mondi» senza sentirsi veramente «a casa in nessuno di essi» (Race and Culture, 1964). Proprio a causa di questa ambivalenza, secondo Park, l’uomo marginale – nel contesto in cui vive – finisce per essere a un tempo «cosmopolita e straniero» e, grazie a questo doppio ruolo, può avere spesso «orizzonti più ampi» di molte delle persone che lo circondano (Race and Culture, 1964).
Questa idea ambivalente – ma non negativa – dell’esperienza quotidiana di chi vive nei margini affiora, nella riflessione di Park e dei suoi allievi, sotto l’influsso di una pluralità di elementi anche molto diversi fra loro: tra gli altri, deriva dalla sensibilità quasi giornalistica di Park (che era stato a lungo cronista) per le contraddizioni della vita urbana, ma nasce anche dagli spunti che questi traeva dalle riflessioni di Georg Simmel sullo straniero; così come dalle suggestioni che provenivano (anche attraverso la mediazione dello stesso Simmel) da una certa immagine della diaspora ebraica e – nello stesso tempo – dalla profonda conoscenza che Park aveva maturato delle faticose lotte per l’emancipazione condotte all’inizio del Novecento dai negri americani (aveva lavorato a lungo con Booker T. Washington, una delle figure di scrittore ed educatore più importanti per la comunità afro-americana statunitense a cavallo fra Otto- e Novecento).
è lo stesso Park a evidenziare anche la possibile rilevanza pedagogica di questo elemento di marginalità sui generis. In un saggio del 1943, intitolato Education and the cultural crisis, egli suggerisce che questa situazione – ambivalente, ma anche ricca di possibili punti di forza – sia simile a quella che vivono (e vivevano già allora, negli Stati Uniti dei primi anni Quaranta) i figli dei migranti, quei ragazzi e quelle ragazze che già all’epoca venivano chiamati ‘seconde generazioni’. Non a caso Park parte dalle riflessioni di un grande filosofo e pedagogista come John Dewey, che – in apertura del suo classico Democrazia e educazione (pubblicato nel 1916) – ricordava l’importanza dei processi educativi nella trasmissione e trasformazione del patrimonio culturale di generazione in generazione. Cosa accadrebbe, si chiedeva Dewey, se una generazione non fosse in grado di trasmettere questo patrimonio alla successiva? È quanto accade a volte, risponde Park, alle seconde generazione dei migranti: «vivono sul margine di due culture – quella del paese dei genitori e quella del paese di adozione – in nessuna delle quali si sentono davvero a casa» (Race and Culture, 1964).

3. Commentando questa accezione del termine ‘margine’, Hannerz – dal quale siamo partiti – osserva come nella descrizione dell’esperienza dell’uomo marginale proposta da Park vi sia non solo un’attenzione per le potenzialità dell’‘essere ai margini’, ma anche un’attenzione per l’elemento di sofferenza e fatica presente in questa esperienza. È un’attenzione che deriva, rileva Hannerz, dalla tradizione del pensiero afro-americano fra Otto- e Novecento, un pensiero che come si è detto Park conosceva bene (Race and Culture, 1964). In particolare, Hannerz suggerisce un possibile collegamento tra l’idea di ‘uomo marginale’ e le considerazioni – molto dure e amare – che agli albori del Novecento il grande padre degli intellettuali afro-americani W.E.B. Du Bois aveva dedicato al tema e all’esperienza della ‘doppia coscienza’, oggi riferimento centrale negli studi culturali e postcoloniali.
Scriveva Du Bois nel 1903: «è una sensazione peculiare, questa doppia coscienza, questo senso di guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri, di misurare la propria anima con il metro di un mondo che sta a guardare con disprezzo divertito e con pietà. La senti sempre la tua duplicità…» (Le lotte del popolo Negro, in Sulla linea del colore, 2010). Queste parole vengono citate sia da Park che da Hannerz. Sono parole che Du Bois riferisce specificatamente all’esperienza dell’«essere Negro», e che lo stesso Du Bois collega strettamente anche ai percorsi di formazione personale dei giovani afro-americani agli inizi del Novecento. «Che cosa si prova ad essere un problema?»: non a caso – ricorda Du Bois – è negli anni della fanciullezza che per la prima volta egli stesso aveva iniziato a percepire questo tipo di domanda, rendendosi contemporaneamente conto di essere percepito come «diverso dagli altri».
Sono parole che, se raccogliamo le suggestioni che provengono da Park, potremmo provare a leggere – fatte salve le necessarie contestualizzazioni – anche in connessione con l’esperienza delle seconde generazioni dei migranti. Certo, Hannerz osserva che molte cose sono cambiate dall’epoca di Du Bois e di Park ad oggi: al giorno d’oggi, osserva l’antropologo svedese, gli studiosi guardano infatti all’esperienza del margine sottolineando soprattutto come «l’impurità e il fondersi insieme offrono ora […] una fonte (forse la fonte più importante) di un auspicato rinnovamento culturale» (Flussi, confini, ibridi, 1997).
La prospettiva indicata da Hannerz è carica di suggestioni pedagogiche, e in questa direzione l’esperienza dei figli e delle figlie dei migranti può essere valorizzata oggi per quanto di più nuovo e più ricco può portare alle società nelle quali si trovano a vivere, per il loro «fare da ‘ponte’ fra le generazioni» (M. Santerini, L’integrazione dei ragazzi di origine immigrata tra scuola ed educazione extrascolastica, in M. Ambrosini, Nè stranieri, né ospiti: cittadini al futuro, 2009). Nella consapevolezza, peraltro, che le ricerche sulle esperienze scolastiche ed extrascolastiche dei figli dei migranti oggi in Italia ci restituiscono un’immagine in cui accanto a molti punti di forza, permangono anche molte criticità (si vedano, per esempio, come punto di partenza le letture proposte a margine di questo contributo).
Per questo, almeno sul piano della ricerca pedagogica, rimane prezioso l’invito di Hannerz a mantenere alta la vigilanza sull’ambivalenza segnalata da Du Bois e Park, e a non smettere di interrogarsi su quale sia oggi – concretamente – l’esperienza del ‘margine’ vissuta dentro e fuori i contesti scolastici italiani dai figli e dalle figlie dei migranti. L’obiettivo pedagogico è che in questo senso i ‘margini’ possano essere davvero per tutti quell’occasione di rinnovamento auspicata da Hannerz. E non il luogo in cui – come amaramente avvertiva Du Bois – si prende la misura dell’anima di alcuni con il metro del mondo di altri…

Letture consigliate
G. Dalla Zuanna, P. Farina, S. Strozza, Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro Paese?, Il Mulino, Bologna 2009.
W.E.B. Du Bois, Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, Il Mulino, Bologna 2010.
A. Granata, Sono qui da una vita. Dialogo con le seconde generazioni, Carocci, Roma 2011.
U. Hannerz, Flussi, confini, ibridi. Parole chiave dell’antropologia transnazionale, 1997; trad. it. in «aut aut», 312, 2002.
MIUR, Alunni con cittadinanza non italiana: rapporto nazionale anno scolastico 2011/2012, Fondazione ISMu, Milano 2013.
R.E. Park, Race and Culture, Free Press, New York 1964.
M. Santerini, L’integrazione dei ragazzi di origine immigrata tra scuola ed educazione extrascolastica, in M. Ambrosini (a cura di), Né stranieri, né ospiti: cittadini al futuro, Federazione SCA-CNOS – Salesiani per il sociale, Roma 2009.

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