MARGINE

Avevo venticinque anni quando sono partita per Milano.
Non che mi dispiacesse vivere nel posto dove ero nata e cresciuta: l’elegante salottino triestino corrispondeva ormai a un luogo dell’anima e il mare era una sorta di terzo genitore con il quale ero abituata a conversare tutte le stagioni.
Dopo l’Università però hai bisogno di chiudere la porta del salotto per uscire a consumare le scarpe sulla strada e di finirla di confrontarti con i genitori, anche quelli liquidi.
Sì, c’è un periodo della vita in cui si ha l’urgenza di stare al centro
anche se non si sa ancora dov’è. In quel momento per me, e per tanti altri, era la voglia di vivere in una grande città con il desiderio di incontro e di scoperta e con la missione di uno studio ‘qualificante’.
Anche gli amori volevano stare al centro a quel tempo.
Le passioni giovanili hanno orrore del margine. Si vuole scavare fino al nucleo terrestre, con il corpo e con il cuore. Per questo il fidanzato di allora mi seguì, senza battere ciglio, nella seducente capitale lombarda.
A Milano ho studiato e a Milano ho cominciato a lavorare.
Anche i miei compagni di corso avevano lasciato
i bordi dell’Italia
Napoli, Bari, Genova, Ancona, Taranto.
Anche loro erano corsi al centro insieme a me.
C’era la sensazione che solo lì accadessero le cose importanti, che solo lì si potesse davvero giocare la propria partita. E poi c’era il pensiero sugli altri, quelli che sapevamo fin dall’inizio, che sarebbero nati e invecchiati nello stesso fazzoletto di terra.
A tratti, va detto, ci sentivamo figli di una stirpe privilegiata.
Eravamo tutti giovanissimi allora, sì, abbastanza prossimi ai margini dell’esistenza.
Non avevamo idea di politica, di società, di economia. C’era però una grande spinta di esplorazione, di incoscienza, di esposizione al nuovo. Un sano slancio vitale verso le cose ignote del mondo.
Ricordo bene. Tutto era ancora meravigliosamente intatto.
Fu con la fine del nostro ‘periodo di formazione’, credo, che cominciammo a comprendere che il centro stava rimpicciolendo.
La crisi cominciò a insinuarsi come un cancro silenzioso. I sintomi erano visibili: nei visi della gente, nei negozi che chiudevano, nelle conversazioni sui mezzi pubblici, nel passo incerto delle persone per la strada.
Rapidamente il capoluogo lombardo subì come una trasfigurazione e divenne un luogo ostile. La forza centripeta della metropoli cominciava ad allentare la sua presa.
Ancora non sapevamo che di lì a poco qualcuno ci avrebbe preso e riportato ai margini senza dircelo. Pensavamo spesso a quando avremmo preso il prossimo treno per tornare a casa, anche se non c’era ancora un’idea concreta di
ritorno al bordo
Lo stage non retribuito durò sei mesi. Subito dopo non si poteva sperare in uno stipendio superiore ai 900 euro al mese. Contratto a progetto per lavorare dalle nove alle venti.
Se una stanza condivisa a Milano costa minimo 400 euro, va da sé che nessuno aveva le risorse per uno spettacolo alla Scala né il tempo per visitare la pinacoteca di Brera né l’umore per un cinema di seconda serata.
Fu a questo punto che rivalutammo la nozione di centro. Se non ci era piaciuto ieri stare in mezzo alle nostre periferie, non ci piaceva oggi stare alle periferie del cuore. Fu un risveglio terrificante capire che mentre correvamo sul filo dei nostri vent’anni, qualcuno, dal fondo, ordiva un piano distruttivo contro di noi.
La carenza di soldi sposta progressivamente i sogni sull’orlo
fino a spegnerli completamente. E i sogni sono difficili da rianimare quando sono stati schiacciati alle pareti
Cominciammo tutti a ragionare più in piccolo. Drammaticamente più in piccolo. C’era solo il lavoro, il supermercato che chiudeva alle nove, e i primi imbarazzi per la richiesta di supporto economico. Ormai necessario.
Di anno in anno la crisi peggiorava. Ognuno di noi nell’arco di un tempo brevissimo si era arroccato sulla sua contenuta e misurata quotidianità. La stanchezza, la fatica, la frustrazione e l’umiliazione ci diedero l’impressione che il centro che avevamo raggiunto era in realtà un buco fagocitante e ingeneroso, un tunnel che ci avrebbe risputato violentemente ai lati. La consolazione di tutti era ormai nel ritorno a casa, vissuto come l’approdo agognato alle proprie rassicuranti sponde familiari
Lo sfruttamento del lavoro giovanile si intensificò fino a raggiungere contorni terribili. Vivemmo quella situazione con un atteggiamento remissivo e impotente. E ancora il centro cominciò a cambiare colore, a ingrigire, fino a diventare una sorta di gabbia mortifera. Ci rendemmo conto in molti che tutte le nostre energie erano impiegate non nel godere del centro ma solo nel rimanerci, così che
i nostri angoli periferici

cominciarono a brillare di una luce nuova.
Eravamo partiti per la Milano
delle opportunità.
Dovevamo essere i compassi che bucavano la carta. Il mondo doveva fare il giro intorno a Noi. E invece, piano piano, abbiamo cominciato a essere spinti
fuori…
Ogni due mesi tornavo alla mia periferia. Detestavo la fermezza di quella città rimasta incastrata in un segmento di Storia, ma dovetti riconoscere che lì, ai confini dell’impero, il pensiero sul centro si faceva più lucido.
Sulla cima di uno scoglio
, guardando l’orizzonte che correva appena sopra la linea del mare capii intimamente la direzione inquietante che stava prendendo la Storia e, con Lei, il destino di una generazione.
L’andirivieni tra il ‘qui’ e il ‘lì’ portò anche ad una strana forma di isolamento: ad ogni partenza, ad ogni ritorno trovavo cose e persone cambiate, ma più tardi capii che quella visione era solo il frutto della mia trasformazione interna. Cominciai a sentirmi ‘sospesa’ continuamente dondolante da un estremo all’altro:
il sogno, la realtà.
A distanza di un lustro molti dei miei colleghi se ne sono andati da Milano. Sono Tornati a Napoli, Bari, Genova, Ancona, Taranto.
Adesso abbiamo piena contezza di ciò che è accaduto: ci hanno spostato al margine quando non stavamo vigilando, perché troppo giovani per guardare dentro una visione freddamente prospettica; d’altronde, il pensiero a breve termine è il vizio, sacrosanto, della giovinezza.
E adesso che sappiamo dove vogliamo andare, adesso che abbiamo l’esperienza e la professionalità, adesso che abbiamo fatto la gavetta, adesso che siamo pronti a diventare genitori anche noi, adesso che abbiamo trovato i nostri nuclei essenziali spostandoci dalla periferia al centro, dal centro alla periferia, dalla periferia al centro, dal centro alla periferia.
Adesso
ci hanno rubato tutto.
E tutta questa fatica per trovarsi e ritrovarsi, dalla circonferenza del sogno al centro della possibilità, conclude in un contratto a progetto che scade domani, in un affitto pagato metà dalla nonna, così che non è più il fulcro del sogno che dobbiamo recuperare ma il banale baricentro che ci fa stare in piedi su due gambe la mattina quando ci alziamo e andiamo a lavorare per 3,50 euro l’ora.
Oggi in Italia non esiste più coordinata. Non esiste più un centro e un margine. Tutto è ridotto a una chiazza provinciale e ideologicamente arretrata lasciata alla barbarie politico-culturale.
Questo ci resta: restare ai confini reali delle nostre cittadelle, curando i rapporti e costruendo una quotidianità accettabile, sperando di salvaguardare l’ultimo centro che possiamo ancora frequentare, quello di noi stessi.

multiverso

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