SCARTI E ABBANDONI

Il monosillabo ‘ex’ porta sempre dentro di sé un po’ di malinconia e con lo stridente accostamento fonico della c e della s sembra perfino riprodurre la lacerazione del distacco. Se poi l’oggetto dell’abbandono che si lascia alle spalle è uno Stato – come quello della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) – che dopo quarant’anni di vita trascina sotto le macerie del Muro l’intero sistema socio-culturale di una nazione, allora il vuoto lasciato da questa definitiva separazione – a livello individuale e collettivo – assume una dimensione esistenziale. In tedesco, quella sorta di negazione ontologica che precede l’anagramma della Repubblica Democratica Tedesca viene sostituita spesso dall’aggettivo ehemalig, traducibile con ‘la volta di prima’, che indica attraverso la Wende – cioè la svolta del 1990 – la dicotomia temporale del ciò che è e del ciò che non è più. Curiosa appare invece l’espressione, utilizzata in italiano, ‘ex Germania dell’Est’, che nasconde l’insidia di attribuire lo stato di passato a qualcosa che di fatto, almeno a livello geografico, esiste ancora, infierendo così sul già precario equilibrio dell’identità di questi territori.

L’abbandono della propria patria e cultura d’origine generalmente viene associato alla figura del migrante; ma il trasferimento fisico della persona non è sempre una condizione necessaria perché si verifichi tale perdita. Lo dimostra il caso dei 17 milioni di ‘migranti sedentari’ che in Germania, subito dopo la caduta della cortina di ferro – senza la complicazione di visti o di valigie – si sono ritrovati nel giro di pochi mesi a vivere in un altro stato, separandosi definitivamente dalla propria identità di cittadini della DDR. Con la riunificazione del Paese, infatti, la repentina ed impietosa politica di smantellamento (Abwicklungspolitik) delle strutture della società tedesco-orientale eliminò ogni riferimento e testimonianza del passato. Tutto quello che aveva a che fare con la vita di prima cambiò faccia, mutando irreversibilmente i connotati: l’economia e la politica, il sistema sociale e il diritto, la scuola e i massmedia; laddove, invece, non c’erano finanziamenti (o volontà) disponibili per la ristrutturazione e per la reintegrazione nel nuovo tessuto economico, subentrò il degrado. Parlando di abbandono della DDR, però, non si intende solo quello di uno Stato ormai giunto al tracollo finanziario e politico, incapace di sopravvivere a se stesso, né lo scarto di una società non esattamente rispettosa delle libertà individuali, ma anche e soprattutto l’abbandono – molto più travolgente ed incisivo – della cultura, del modo e dello stile di vivere, delle abitudini e delle certezze, in definitiva, della vita d’ogni giorno che aveva accompagnato i quarant’anni della defunta Repubblica.

La prima lacerazione con il passato, che ben presto ridimensionò l’iniziale euforia della riunificazione, fu determinata dalla riforma monetaria e dal passaggio diretto all’economia di libero mercato che fecero precipitare l’intero sistema produttivo dei nuovi territori federali in un’insanabile crisi. Per i tedeschi dell’est ciò comportò un declassamento delle competenze professionali e la frustrazione provocata dalla disoccupazione, un problema – quest’ultimo – non solo sconosciuto all’economia pianificata ma anche stridente con il forte orientamento al lavoro dell’ideologia marxista. Le aziende di proprietà del popolo (Volkseigene Betriebe) vennero sciolte, così come le cooperative e le imprese di stato che non riuscirono in tempo utile a compiere la riconversione necessaria; molti piccoli punti-vendita locali furono rimpiazzati dalle grandi catene di distribuzione e la maggior parte dei prodotti dell’est venne eliminata in brevissimo tempo dagli scaffali dei supermercati, dapprima a causa dell’iniziale smania verso i nuovi beni dell’economia di mercato e successivamente per l’interruzione della produzione. La pressoché immediata scomparsa di quasi ogni oggetto della quotidianità e la progressiva trasformazione del paesaggio urbano causarono fra i nuovi Bundesbürger uno stravolgimento anche nella percezione dello spazio e del proprio contesto di vita, creando un senso di disorientamento tale da farli sentire stranieri nella propria terra.

Con il passare del tempo, però, i tedeschi orientali hanno cercato di rimediare a questo distacco collettivo con il recupero di una parte del proprio passato. Nella seconda metà degli anni ’90, infatti, insieme ad abili operazioni commerciali e alla combinata attenzione dei media, è stato possibile riprendere l’attività di alcune delle imprese che erano fallite dopo la riunificazione; in tal modo sono tornati in auge alcuni significativi prodotti e marchi della DDR che si pensavano ormai scomparsi per sempre, quali, fra gli altri, il detersivo per i piatti ‘Fit’, le sigarette ‘F6’ («il vero sapore dell’Est: con più catrame e più nicotina!») e la bevanda ‘Vita-Cola’, versione socialista della celebre multinazionale americana.

Ma il recupero più famoso e significativo fra gli scarti della vecchia Repubblica è senz’altro l’Ampelmännchen dell’Est, cioè l’omino riprodotto nella segnaletica dei semafori delle città tedesco-orientali. Creato nel 1961 per rendere più sicure le strade della DDR, l’ormai famoso omino stilizzato ha rappresentato e rappresenta tuttora un oggetto rivoluzionario. Lo è stato nella DDR per il suo design accattivante e per le sue linee dettagliate ed alternative (l’aggiunta del cappello, già di per sé inusuale per un pittogramma, è caratterizzata da una buffa forma rotondeggiante simile agli elmetti coloniali tedeschi); e lo è tuttora perché, dopo una vita post-unitaria travagliata, è divenuto il simbolo della riabilitazione della vecchia repubblica socialista. Accomunato dalla stessa sorte della maggior parte degli emblemi della DDR, anche l’Ampelmännchen con la riunificazione delle due Germanie aveva dovuto far spazio all’omino della segnaletica occidentale, a norma europea e dalle linee più standard e razionali; a differenza però di altri oggetti made-in-DDR irrimediabilmente scartati, l’omino segnaletico orientale ha avuto la sua rivincita sui semafori dell’ovest sei anni dopo la Wende grazie ad azioni collettive spontanee e ad interventi politici mirati, che sono riusciti a decretare, per volontà popolare, la reintegrazione degli amati segnali luminosi per i pedoni.

La vicenda dell’‘Ampelmann sovietico’, come viene ironicamente chiamato – e più ancora la mobilitazione popolare di cui è stata protagonista – rappresenta l’emblema del bisogno tedesco-orientale di recuperare parte del passato negato, mettendo a segno la reazione ad uno dei tanti irragionevoli effetti dello ‘smantellamento’ post-riunificazione. Discussioni non sono finora mancate: dagli studi semiotico-iconologici, a quelli più ameni sull’orlo dei pantaloni e sul cappello dalle fattezze di coperchio di pentola. Ma soprattutto, tale icona è assurta a figura carismatica dell’ex Repubblica Democratica Tedesca e di conseguenza ad avvocato difensore dei valori tedesco-orientali, tanto da venir spesso rappresentata, contrapposta al suo collega della Germania occidentale, in eloquente atteggiamento bellicoso. Tuttavia, ben più importante dell’aspetto iconologico, la possibilità anche all’inizio del terzo millennio di seguire le indicazioni segnaletiche pedonali dell’omino verde e rosso, nato e cresciuto nella repubblica socialista tedesca, rappresenta – a dispetto degli innumerevoli oggetti del passato dell’ex-DDR scartati ed abbandonati – un segno che per molti Ostdeutsche ha il sapore di conquista.

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