SCARTI E ABBANDONI

Ouagadougou, Burkina Faso. La giornata è umida e sfiancante. Mentre attendo all’ombra di un albero osservo un meccanico che sta armeggiando nel cofano di una vecchia Renault. Dal coperchio di una latta ha ricavato una ventola di raffreddamento e ora prova a montarla. Poco prima avevo visto un negozio che vendeva sandali fatti con scarti di copertoni e secchi ricavati da vecchie camere d’aria. In Africa il riciclo è la norma, lo scarto quasi non esiste, tutto viene riutilizzato: ferro, bottiglie di plastica, scatoloni.

Alcune ONG, sulla base di finanziamenti dell’Unione Europea, hanno avviato in Africa occidentale progetti di raccolta rifiuti. La maggior parte delle famiglie coinvolte si è arrabbiata quando è venuta a sapere che bisognava pagare per vedersi portare via scarti organici e non, che sarebbero invece stati utilizzati: «Siete voi a doverci dare qualcosa» sostenevano davanti agli sguardi stupiti degli organizzatori.

Piccoli episodi di quotidianità africana che sembrano però diventare metafora di un confronto più ampio, che va ben al di là della semplice questione degli scarti fisici. Le società tradizionali di villaggio danno (o davano, se si parla dell’Italia e dell’Europa rurali) spesso vita a realtà piuttosto integrate, dove bene o male tutti hanno un loro ruolo. Non si vuole certo mitizzare o idealizzare un ‘mondo perduto’, ma è certamente vero che le piccole comunità si fondavano su rapporti più stretti, talvolta anche antagonistici, ma rapporti. Anche il tuo rivale era comunque parte della comunità. Il tutto si reggeva su un dosaggio dei conflitti e su un contenimento delle forze centrifughe. Il mondo del lavoro e quello della festa, del rituale, erano complementari, facevano parte di quel continuum che era lo scorrere della vita.

L’avvento dell’era industriale ha creato nuove forme di relazione non solo tra gli individui, ma anche spazio-temporali. Il luogo del lavoro si allontana dall’abitazione e di conseguenza il tempo del lavoro si separa da quello del riposo e da quello della festa. Come ha spiegato brillantemente Victor Turner (Dal rito al teatro, 1986), il rito si trasforma in teatro e la maggior parte di noi, abitanti urbani di una società industrializzata, vive questa esistenza parallela, quasi pirandelliana. Ho lavorato undici anni in un’industria e so cosa significhi attendere il ‘tempo libero’, tempo che per chi gestisce il sistema industriale è invece considerato come scarto, come perdita. Ed è su questa idea di scarto che vengono gestite le politiche relative alle vite di molte persone. In società dove la produttività è l’elemento fondante, chi non produce o non produce più viene scartato, posto a margine.

La sfera dell’economia è stata posta al di fuori del sistema di valori vigente, esonerata dalla morale, affrancata da ogni forma di giustizia, come ha brillantemente dimostrato Serge Latouche in Giustizia senza limiti (2003). Con un processo di colonizzazione mentale, in gran parte riuscito, l’economia di mercato, la logica del profitto, è diventata essa stessa ‘la morale’, al punto che nessuno la mette più in discussione.

Il termine economia si accompagna spesso con sviluppo, altra parola evocativa di benessere e futuro radioso. Con un’analisi raffinata e originale l’antropologo elvetico George Rist sostiene che il concetto di sviluppo svolge per la società occidentale la stessa funzione dei miti nelle società cosiddette primitive (G. Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, 1997). Lo sviluppo è il mito fondante della nostra società, senza di esso tutto il sistema crollerebbe e poiché stiamo imponendo a tutti il nostro sistema, imponiamo anche il vangelo dello sviluppo. Sviluppo quindi, come elemento della moderna religione economicistica: un’ideologia si discute, una fede no. La credenza nello sviluppo è paragonabile quindi ai miti delle società non occidentali. L’atto di credere è performativo e se si deve far credere è per far fare. Come ogni credenza, anche lo sviluppo ha i suoi rituali, fatti di incontri tra i grandi della Terra, i G8, che continuano a tenere accesa la fiamma della speranza in un futuro migliore.

Un esempio di come l’idea di sviluppo si avvicini più a una fede che all’espressione di una presunta razionalità, è dato dal fatto che, se un politico fa affermazioni che vengono regolarmente smentite, alla lunga perde di credibilità. Nel campo dello sviluppo invece le promesse sono instancabilmente ripetute e gli esperimenti costantemente riprodotti. Come spiegare allora che ogni fallimento diventa l’occasione di nuove dilazioni? Appare quindi sempre più evidente che la problematica dello sviluppo è inscritta nell’immaginario occidentale e ne costituisce il mito fondante.

Nel 1949 il presidente americano Truman per la prima volta in un discorso ufficiale parlò di sviluppo e di paesi ‘sottosviluppati’ da aiutare. Ecco creati gli scarti. Aveva messo a confronto, senza collegarli nei loro rapporti causali e con una lettura tardo-evoluzionista, il ricco Occidente con il Sud povero e affamato che occorreva sviluppare in chiave occidentale: aveva creato degli scarti e le premesse per ‘i naufraghi dello sviluppo’ (S. Latouche, I naufraghi dello sviluppo, 1993) e per il sempre maggiore numero di senza patria, di profughi, di rifugiati privi di ogni diritto e possessori solo della loro ‘nuda vita’.

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