FLESSIBILITÀ

Nel mutevole panorama delle esperienze artistiche contemporanee emerge un dato che accomuna molte scelte: nel loro percorso di ricerca, numerosi artisti attribuiscono importanza particolare al rapporto che si instaura fra il loro agire e la realtà, fra il loro agire e il pubblico. Più specificamente, gli artisti mettono in atto operazioni che interagiscono con la realtà; interventi o performance vengono spesso calati all’interno di contesti sociali che costituiscono la piattaforma dalla quale l’opera scaturisce: l’artista coinvolge altre persone e costruisce narrazioni in dialogo. L’opera dunque, oltre che essere una azione che mira a mettere in discussione la realtà, contiene anche un desiderio di relazione con gli altri e soprattutto diventa mezzo di condivisione di esperienze con il fruitore, che diviene così anche autore.

Si tratta di produzioni che vengono realizzate all’interno di una comunità, insieme a persone che non necessariamente hanno particolari competenze o conoscenze di tipo culturale né necessariamente sono abituali fruitori dell’arte. L’esito dell’operazione non è necessariamente un oggetto estetico, ma, più facilmente, una azione, un processo, che si crea, cresce, svanisce.

Significa che le definizioni un tempo inflessibili di artista, opera, pubblico hanno perso significato. L’origine di questo importante processo di decostruzione risale senza dubbio all’idea di ready made di Marcel Duchamp: una scelta radicale con la quale egli afferma l’annullamento di ogni valore assoluto dell’opera, l’indifferenza totale per la qualità formale ed espressiva dell’oggetto artistico, l’inutilità per l’artista di produrre l’oggetto, che altro non è ormai che un oggetto già esistente ‘semplicemente’ prelevato dalla realtà quotidiana, che acquista valore di opera mediante una ironica operazione di decontestualizzazione. Se vi è sparizione (non necessità) dell’oggetto artistico, anche il ruolo dell’artista si fa interrogativo: l’arte diventa non più un costruire oggetti, ma un ‘puntare il dito’ a indicare, poiché l’oggetto è ‘ready made’, mentre cresce il potere del luogo di fruizione e del pubblico, poiché il ready made acquista significato solo nel momento in cui di esso avviene una fruizione diversa, data dal nuovo contesto che lo ospita. Duchamp ha agito vigorosamente anche su altri aspetti dell’operazione artistica, attribuendo valore al comportamento e non più alla produzione, al pensiero e non più all’azione, fino ad annullare ogni sua presenza ufficiale  nel mondo dell’arte ritirandosi nel gioco degli scacchi. Ha inoltre messo in evidenza la possibilità di scelte e comportamenti possibili a tutti, facendo coincidere, come Dada voleva, l’arte con la vita dell’artista come di qualunque persona. Per Duchamp insomma, l’arte non va costruita né inventata: l’arte esiste già.

Una operazione che anche ha precorso la tendenza a ‘costruire situazioni’ o ‘ambienti’ indefinibili ed elastici è la Merzbau di Kurt Schwitters, straordinario work in progress realizzato a partire dal 1923 che l’artista tedesco fa crescere all’interno della sua casa-studio attraverso la accumulazione e la sedimentazione di elementi presi dalla realtà quotidiana: vi è in questa con-fusione fra luogo di lavoro, luogo di vita, opera d’arte, fra architettura, pittura, scultura, l’annullamento di ogni desiderio di porre conclusione all’opera, e vi è un interrogativo su chi ne sia il fruitore. L’opera è ‘aperta’ (per usare una fortunata definizione di Umberto Eco) e dunque tende a divenire non-opera oppure opera infinita e indeterminata.

Con gli anni ’60 e ’70 tutte le posizioni artistiche – dalla pop art al concettuale, dalla land art all’arte ambientale in generale, al nouveau réalisme, dalla body art alle pratiche performative, all’utilizzo del video e della fotografia, dalla narrative art al minimalismo – registrano le stesse questioni di fondo: rapporto con la realtà e con la vita sempre più libero da mediazioni, messa in discussione del concetto stesso di opera d’arte come prodotto generato unicamente dall’artista, disinteresse per il risultato finito, forte accento posto sul processo, sulla interazione, sulla continua modificabilità.

Questo è il percorso molto importante che la flessibile arte contemporanea ha continuato a seguire fino ai giorni nostri, in un arcipelago di procedure, azioni, situazioni, recuperi, luoghi nei quali l’artista risulta figura sempre meno definita, l’opera diventa sempre più mutevole, il pubblico sempre più protagonista e soggetto decisivo – fino alle installazioni interattive di tipo tecnologico, spesso di segno ludico, e alle recenti pratiche artistiche nel web: in questo ambito nascono opere dai margini molto labili, liberamente riproducibili, opere ‘collaborative’, distribuite, aperte alla partecipazione attiva degli utenti, i quali stimolano processi creativi che determinano una nuova ‘sparizione dell’arte’, che ora si dissolve anche in una dimensione virtuale.

I progetti di Jochen Gerz
Il XX secolo ha visto progressivamente maturare l’idea che ogni individuo sia padrone di se stesso, valga di per sé e possa, con la sua scelta, mutare uno scenario dato. Il profondo scontro e il forte, anche contraddittorio scambio fra dittature e democrazie, la sfida della democrazia stessa come eventualità possibile e migliore per la storia e l’esistenza degli uomini, la difficoltà, per converso, della sua attuazione, il crescere del peso della comunicazione e della cultura di massa, hanno creato un terreno complesso, pieno di intrecci di significati, sul quale si è andato sviluppando un concetto di arte totalmente elastico. L’arte è diventata una ‘proposta’, che può essere formulata attraverso codici non speciali, non esclusivi, ma praticabili da tutti, leggibile e modificabile da ciascuno. Ne nasce una intricata babele di formulazioni e di letture, e tutto diventa possibile.

In questo contesto l’opera di Jochen Gerz assume particolare rilievo e autorità. L’artista tedesco dagli anni ’60 lavora intensamente a mutare di significato all’arte, dissolvendola in progetti che recuperano la radice greca della parola ‘poesia’: ‘poiéo’, fare.

Chi fa, nei progetti di Gerz, non è certo solo l’‘artista’ (che diventa coordinatore di un progetto), ma sono potenzialmente tutti i soggetti della comunità coinvolta nell’operazione: cioè tutti coloro che secondo un’idea di arte ormai superata sarebbero stati ‘pubblico’. L’operazione artistica consiste inoltre nel fare stesso, e non nel risultato del fare: a volte l’opera finale esisterà, a volte sarà pura azione, a volte invece continuerà a mutare conquistando nel tempo il suo significato, a volte addirittura sparirà, secondo alcuni concetti che Gerz ha elaborato nel tempo, come quelli di ‘monumento invisibile’ o ‘anti-monumento’.

Gerz alimenta questo vigoroso e metodico processo di smontaggio conducendo operazioni di arte pubblica poeticamente fondati su temi importanti che toccano la storia, la società civile, la memoria, il senso dell’esistenza, l’appartenenza a una collettività.

Fin dal 1968 l’artista tedesco realizza un’operazione di arte pubblica applicando un adesivo con le parole ‘Attenzione l’arte corrompe’ al David di Michelangelo a Firenze, dichiarando, attraverso una azione minima, di sottrarsi ad ogni tipo di arte, con un gesto di rottura totale. Il dubbio sull’arte annunciato con questo primo intervento si realizza poi con coerenza nelle innumerevoli operazioni successive attraverso le quali Gerz lavora a vanificare i linguaggi, trovando di volta in volta vie di comunicazione diverse, mai ratificate, tutte associate all’azione.

Una delle operazioni più note di Gerz è il Monumento contro il fascismo, realizzato a Hamburg-Harburg dal 1986 al 1993, consistente in una colonna alta 12 metri sulla quale gli abitanti della città vengono invitati a porre una firma conto il fascismo. Man mano che la parte accessibile della colonna viene firmata, questa viene fatta sprofondare nel terreno, fino a scomparire. Nel corso del progetto sono 70 mila le persone che firmano, mentre in città si sviluppano il dialogo, la critica, la discussione. Il monumento dopo sette anni sparisce e non resta che una targa ad indicare che, scrive Gerz, «alla fine soltanto noi stessi restiamo in piedi contro l’ingiustizia».

Analogo meccanismo di nascondimento che lascia sopravvivere il solo significato dell’agire della collettività troviamo in Pietre. Monumento contro il razzismo, operazione realizzata a Saarbrücken nel 1993. Gerz chiede a 61 comunità ebraiche tedesche di compilare una lista dei cimiteri esistenti in Germania prima della seconda guerra mondiale: sono 2.146. Insieme a studenti della città rimuove segretamente, di notte, le pietre della pavimentazione della piazza del Castello, dove ha sede il parlamento provinciale, e su ciascuna pietra viene scritto l’indirizzo di ciascun cimitero. Le pietre vengono poi ricollocate, con la scritta nascosta, rivolta verso il basso. Il lavoro viene commissionato a posteriori dal parlamento provinciale e la piazza del Castello viene rinominata ‘Piazza del Monumento Invisibile’: solo la comunicazione, l’informazione, il passa parola, il pensiero umano renderanno possibile nel tempo la comprensione del nome della piazza.

Tutto dedicato al potenziale della parola stessa è La mia parola-My Word, che Gerz realizza nel 1999-2000 a Bolzano, a Kiel (Germania) e a Windsor (Canada), tutte città di confine fra culture e lingue diverse. Attraverso l’organizzazione di un museo e di un giornale locale i cittadini sono invitati a comunicare ciascuno una propria parola; chi risponde alla richiesta riceve in cambio una T-shirt con la propria parola stampata: essa costituisce un’opera d’arte più visibile se indossata che se conservata nelle collezioni del museo, che in questo modo viene a sua volta messo in discussione pur essendo il committente del progetto.

Nel 2001-2002 Gerz realizza un’operazione nel web dal titolo L’antologia dell’arte, per la quale invita artisti e teorici a partecipare ad un dibattito e alla produzione di lavori e testi a catena, con una sorta di passaggio di testimone. Alla fine del progetto si compone nel web una interrogazione sul senso dell’arte (cosa sulla quale nessuno più si interroga, dice l’artista) creata dai contributi sia visivi che verbali di 312 autori.

Fra le realizzazione più recenti vi sono il Monumento al Futuro, realizzato a Coventry (Inghilterra) nel 2004, la Piazza dei Diritti Fondamentali, a Karlsruhe dal 2002 al 2005, e Amaptocare, a Ballymun (Dublino) dal 2002 al 2006, ancora in corso.

Il Monumento al Futuro è un obelisco di vetro realizzato nel centro storico della città, distrutto dalle bombe tedesche e poi ricostruito; accanto ad esso sono poste otto targhe di vetro sulle quali sono indicati i popoli che la cittadinanza, interrogata, ha dichiarato con maggiore frequenza essere i più grandi nemici: ma questi popoli sono qui indicati come amici ai quali il monumento è dedicato. A questo progetto di ‘riconversione’ del nemico in amico partecipano 6.000 persone.

Il progetto di Karlsruhe è dedicato al tema della giustizia. La città prima della riunificazione delle due Germanie era la capitale del sistema legale tedesco, ruolo poi passato a Berlino. Per riflettere su questa importante funzione della città che ormai fa parte del passato vengono interrogati specialisti della giustizia da un lato e persone che hanno subito l’azione della giustizia dall’altro. Ne derivano insegne che sui due lati portano scritti i due opposti punti di vista e che vengono poste su pali collocati nella antica piazza, che prende il nuovo nome di ‘Piazza dei Diritti Fondamentali’. Ancora una volta l’operazione coordinata da Gerz e costruita dalla collettività lascia un segno nel tessuto urbano e, al tempo stesso, nella storia.

Amaptocare è un’operazione sul rapporto fra cittadini e città in un momento in cui flussi migratori e nuove inurbazioni sono di grande attualità. Gerz invita i cittadini della nuova Ballymun (Dublino) a comperare e a donare alla città un albero. Gli alberi vengono collocati nella nuova piazza: accanto a ciascun albero viene posta una targa con una frase che il donatore vorrebbe che l’albero, se potesse parlare, dicesse a nome suo; al centro della piazza vengono scolpiti nel granito i nomi dei donatori. L’intervento costituisce una sfida alla storia e alle consuetudini e fa in modo che non i cittadini, specie se immigrati, si adeguino alla forma della città, ma la città prenda forma dalle scelte dei cittadini.

L’opera d’arte, per Gerz, si dissolve nella collettività, che ne diviene autrice e fruitrice attraverso la scelta e l’azione degli individui che la compongono.

Attualmente Gerz sta lavorando anche in Italia al progetto Salviamo la luna, commissionato dal Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo (Milano). I cittadini saranno coinvolti in un progetto che li porterà a riflettere su se stessi, sulla propria immagine fotografica, sulla parte umana e irrazionale che resta dentro di loro (dentro di noi) nonostante vivano in un mondo che li vede divorati, dispersi nel grande hinterland, dalla produzione e dalla presenza dei mass media: una parte irrazionale e sognante rappresentata dalla lontana, silenziosa luna. Anche il lavoro di Gerz è, sempre, silenzioso.

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