FLESSIBILITÀ

La plasticità del materiale biologico è oggi considerata una proprietà cruciale per comprendere le modalità di trasformazione dei sistemi viventi. Questo breve contributo si concentrerà sull’unica idea che essa, tuttavia, non debba essere intesa come una ‘disponibilità’ passiva degli organismi a essere forgiati dalla selezione naturale (plasticità come plasmabilità), bensì come una maggiore capacità di riorganizzazione interna a fronte di pressioni esterne nel gioco evolutivo (plasticità come intreccio fra strutture e funzioni).

Vediamo per esempio che la capacità dei circuiti neurali di acquisire funzioni per le quali non erano stati ‘programmati’ nel corso dell’evoluzione, caratteristica che John R. Skoyles ha definito ‘plasticità neurale’, potrebbe essere un valido adattamento: la plasticità neurale garantirebbe una buona coordinazione dello sviluppo neurale, in sostanza la possibilità di espandere alcune aree a scapito di altre nel corso dello sviluppo. Ora, se spostiamo lo sguardo dalla funzionalità attuale alla storia naturale, è possibile che nel corso dell’evoluzione circuiti inizialmente dedicati a determinate funzioni adattative (per esempio di natura senso-motoria) siano stati poi ‘cooptati’ per funzioni differenti (utilizzo di strumenti, comunicazione, comprensione simbolica…) al mutare del contesto ecologico.

Nel suo Che cosa sappiamo della mente (2004) Vilayanur S. Ramachandran sostiene che l’evoluzione delle capacità di astrazione dalle scimmie antropomorfe all’uomo potrebbe aver seguito un percorso di ‘conversioni funzionali’: «sequestrare opportunisticamente una struttura per indurla a svolgere una funzione diversa da quella per la quale si era evoluta in origine non è l’eccezione, bensì la regola». Ebbene è proprio tale regola, a nostro avviso, il fulcro centrale di una concezione evoluzionistica della plasticità biologica. Vittorio Gallese, il neurobiologo co-scopritore dei ‘neuroni specchio’, fondamentali per spiegare i meccanismi di imitazione, di reciprocità e di comprensione intersoggettiva, ha ipotizzato che gran parte delle funzioni connesse all’utilizzo del linguaggio umano abbiano radici adattative di tipo senso-motorio e si siano sviluppate come competenze ‘derivate’ dalle prime per riadattamento o ‘ex-attamento’. Le origini di questa idea di ex-attamento possono essere fatte risalire alla sesta edizione de L’origine delle specie di Charles Darwin. Una delle maggiori difficoltà del ragionamento evoluzionista risiedeva infatti nella giustificazione del valore adattativo degli stadi incipienti di strutture organiche molto elaborate: a che cosa può servire un abbozzo di occhio o il primo accenno di un’ala? Darwin aveva intuito che non poteva esistere un ‘dispiegamento teleologico’ dell’organismo verso la costruzione di organi perfettamente strutturati. Con la sua teoria del ‘pre-adattamento’ ammise che vi fossero cambiamenti funzionali nell’ambito della continuità e della ridondanza strutturale: un abbozzo di occhio non può servire per vedere ma deve essersi formato per una funzione pre-adattativa che è stata poi modificata. Parti dell’organismo selezionate per una certa funzione ancestrale vengono cioè ‘riadattate’ opportunisticamente a funzioni inedite.

L’intuizione darwiniana fu che alla continuità di una trasformazione morfologica per selezione (l’organo si trasforma sotto l’effetto delle pressioni selettive) non necessariamente corrispondesse una continuità progressiva della funzione (che ad un certo punto può cambiare, sovrapponendosi a o sostituendo la precedente). I paleontologi Stephen J. Gould ed Elisabeth Vrba, in un saggio del 1982 dal titolo Exaptation, a Missing Term in the Science of Form, divisero l’insieme degli aptations (tutti i tratti fenotipici utili) identificando il sottoinsieme dei caratteri formatisi per una ragione e poi resisi disponibili per una funzione anche del tutto indipendente, e continuando a definire ‘adattamenti’ i casi di coincidenza fra l’origine storica e l’utilità attuale. Si parla dunque di ex-aptation (utilità ‘a partire da’ una struttura già esistente) in tutti i casi in cui vi sia una cooptazione, in vista di nuove funzioni, di strutture impiegate in passato per funzioni diverse o talvolta originatesi senza alcuna funzione adattativa (una nozione più radicale di exaptation introdotta da Gould – La struttura della teoria dell’evoluzione, 2003 – e non presente in Darwin). L’impiego adattativo attuale di una struttura non implica che questa sia stata costruita selettivamente per quell’impiego.

Negli ultimi anni il principio di exaptation ha ottenuto alcune importanti conferme sperimentali. La più importante è quella di un gruppo di genetisti americani (Wiljan Hendriks, Jack Leunissen, Eviatar Nevo e altri) che nel 1987 sono riusciti a misurare, grazie all’orologio molecolare, la trasformazione funzionale per exaptation del cristallino di una particolare talpa nordamericana (Spalax ehrenbergi): la valutazione quantitativa della velocità di trasformazione genetica per le proteine del cristallino ha permesso di predire che l’occhio cieco e atrofizzato dell’animale svolgeva ancora funzioni di termoregolazione (poi riscontrate in laboratorio).

Con il concetto di exaptation viene messo in discussione l’approccio adattazionista di una parte del pensiero evoluzionista, cioè l’idea che la morfologia rappresenti sempre un’ottimizzazione funzionale della struttura organica all’ambiente. Quindi la plasticità del materiale biologico corrisponde alla sua flessibilità ‘exattativa’, o da ‘bricoleur’ come suggerì François Jacob, a partire da vincoli strutturali e architetturali interni, piuttosto che alla sua malleabilità selettiva (Evoluzione e bricolage, 1978).

Oggi sappiamo che episodi cruciali di exaptation hanno condizionato profondamente anche l’evoluzione umana. Secondo il paleoantropologo Ian Tattersall (Il cammino dell’uomo, 1998), almeno tre grandi svolte dell’evoluzione umana corrisponderebbero a fenomeni di exaptation biologico nell’ambito della diversificazione di forme che ha contraddistinto il ‘cespuglio’ evolutivo delle specie ominidi: 1) sembra plausibile che l’evoluzione del bipedismo non sia stata un adattamento diretto alla locomozione, ma un exaptation a partire da una funzione originaria di termoregolazione (la postura eretta diminuisce sensibilmente la superficie esposta al sole); 2) l’evoluzione dell’anatomia indispensabile alla produzione del linguaggio articolato (discesa della laringe ed espansione della faringe) potrebbe essere stata l’adattamento a una funzione respiratoria differente; 3) la stessa evoluzione delle nostre capacità cerebrali potrebbe essere stato un exaptation a partire dall’abnorme espansione fisica del cervello umano, forse innescata da un fenomeno di neotenia.

Molti comportamenti umani e molte proprietà del cervello umano potrebbero non essere adattamenti diretti, ma conseguenze collaterali, riadattamenti, cooptazioni funzionali. La nozione di exaptation, dunque, cogliendo il nesso fra potenzialità morfologica e produzione della novità funzionale attraverso una sorta di ‘assemblaggio’ opportunista con ampi margini di sub-ottimalità, introduce nella concezione della natura della storia un importante principio di ridondanza come ‘fondamento della creatività’. L’evoluzione, propose Gould (Otto piccoli porcellini, 1994), è un «processo straripante di ridondanza» e l’adattamento più che un’ottimizzazione diretta è più spesso un effetto collaterale. La flessibilità funzionale è direttamente proporzionale alla capacità degli organismi di reagire creativamente ai cambiamenti di regole ambientali. La plasticità, così intesa, è dunque direttamente proporzionale alle possibilità di sopravvivenza: gli organismi sopravvivrebbero non solo grazie alla specializzazione adattativa, ma anche grazie all’imperfezione, alla molteplicità d’uso e alla ridondanza.

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