VECCHIO NUOVO

Per imparare a invecchiare è indispensabile l’esistenza di un modello di riferimento in grado di orientare i contenuti, il senso e le direzioni dell’apprendere a essere anziani sufficientemente adeguati ai tempi, ai luoghi, alle richieste sociali e alle aspirazioni individuali. In realtà, nella contemporaneità postmoderna non esiste alcun solido modello di vecchiaia che possa costituire un auspicabile e condiviso riferimento per le persone che anziane sono o tali si accingono a essere. L’anziano auspicato, verso cui indirizzare le intenzioni auto ed etero apprenditive, è ancora tutto da inventare: i modelli propri delle società a prevalente connotazione agricola e industriale – in crisi profonda e irreversibile – non sono più in grado di costituire un orizzonte di riferimento per chi si pone il dubbio attorno alla distanza esistente tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe/potrebbe essere, e non si prospettano, in tempi brevi e medi, modelli in grado di sostituirli adeguatamente.

In particolare, è da tempo in crisi il modello di vecchiaia sapiente e saggia, quella vecchiaia caratterizzata da sapere, autorevolezza, riduzione di aspettative nei confronti del futuro, atteggiamento contemplativo e non operativo, bilancio positivo della propria vita. È un modello in crisi profonda e irreversibile, come è in crisi profonda e irreversibile la struttura economica, sociale e culturale premoderna nel quale è maturato e vissuto. È una crisi dovuta al lungo e antico processo di svalutazione del sapere degli anziani, e del ‘potere’ connesso a tale sapere: l’anziano non è più il conservatore e il trasmettitore attivo delle competenze tecniche, dei valori, delle norme e dei modelli di vita utili alla propria comunità di appartenenza, diventa tutt’al più il testimone di esperienze passate non ritenute utili e replicabili dalle generazioni successive.

Nello stesso tempo, è in crisi anche il modello di vecchiaia che ha progressivamente sostituito quello ‘agricolo’, cioè il modello industriale-fordista, caratterizzato, nella sua essenzialità, dal concepire e praticare la vecchiaia come una condizione comune di inattività retribuita, e ciò in virtù dell’affermarsi di un solido sistema previdenziale, all’interno di una diffusione della legittimità e degli interventi del welfare state. La vecchiaia ‘fordista’ è stata quella che più di altre ha ‘scommesso’ sulle potenzialità apprenditive degli anziani, che con maggiore forza ha posto l’esigenza di sviluppare strategie e servizi finalizzati a imparare a essere vecchi diversi da quelli del passato e a imparare a  trasformare le discontinuità del passaggio dall’età adulta a quella anziana in occasioni di cambiamento positivo e crescita per molte dimensioni dell’esistenza. In tale modello (e pratica) di vecchiaia la cessazione dell’attività produttiva non è più indissolubilmente associata all’esaurimento fisico e psichico delle persone, così come l’età avanzata delle persone non è più associata all’apice del sapere e delle competenze. Nelle società industriali, quanto meno in alcuni dei suoi ambienti sociali, si è assistito al progressivo diffondersi della convinzione riguardante la possibilità di apprendimento degli anziani. Una convinzione che ha fatto non poca fatica ad evidenziarsi e ad essere legittimata, avendo dovuto superare ostacoli rilevanti quali, per esempio, l’idea della mancanza in questa età dei prerequisiti cognitivi per l’apprendimento e delle sufficienti motivazioni per il ‘rientro in formazione’. Grazie a tale convinzione, la constatazione dell’esaurimento della funzione sociale del sapere degli anziani ha trovato uno sbocco positivo nel diffondersi della crescente certezza attorno alla possibilità di continuare ad apprendere. In questo quadro, la partecipazione degli anziani ai processi d’apprendimento si rivela come una possibilità a tutto campo, quindi non solo un’eventuale presenza in qualità di ‘docenti’ (esperti, testimoni…), ma anche e soprattutto in qualità di ‘discenti’. È il riconoscimento del diritto all’apprendimento, cioè della possibilità di porre domande formative, anche eccentriche rispetto a quelle consuete degli adulti non anziani, e poter ricevere delle risposte adeguatamente dimensionate alle caratteristiche specifiche proprie dell’essere discente in età anziana. La diffusione delle esperienze formative tra gli anziani è stata, in parte, una sorpresa per gli stessi ‘addetti ai lavori’, e ha ricevuto impulso anche dall’ampliarsi e dal radicarsi di una concezione dell’adulto e dell’educazione degli adulti non ricondotta solo alla dimensione professionale dell’esistenza. Anzi, è possibile affermare che la stessa riflessione riguardante le possibilità apprenditive in età anziana ha contribuito a incrinare la certezza dei confini tra età adulta ed età anziana e a mostrare le potenzialità di attività formative non finalizzate esclusivamente o principalmente al riposizionamento dei soggetti nella sfera professionale.

La vecchiaia (il modello di vecchiaia in progressiva costruzione) degli inizi del nuovo secolo si presenta come sicuramente diversa dalle precedenti, da quelle che si sono concluse o affacciate e consolidate nel corso, in particolare, della seconda metà del Novecento. Quale potrà essere è difficile dirlo, in una fase storica come quella attuale caratterizzata da flessibilità e incertezza, obsolescenza precoce di convinzioni, comportamenti e saperi, ridimensionamento dei sistemi di tutela, mancanza di progetti forti e condivisi per il futuro, itinerari fordisti di ingresso, permanenza e uscita dalle attività produttive. In tale situazione, imparare a invecchiare diventa una di quelle imprese destinate a non essere portate a termine, non per mancanza di risorse, non per mancanza di intenzioni, non per mancanza di coraggio, ma per la mancanza di punti di riferimento e orientamento, per la mancanza di obiettivi condivisi e condivisibili.

multiverso

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