VECCHIO NUOVO

Conversazione tra Andrea Csillaghy e Miklos Hubay

Csillaghy. Oggi si fa un gran parlare di vecchi e di vecchiaia, ma più per negarla, sembra.

Hubay. Le grandi discussioni che si fanno oggi intorno al tema della vita che si è allungata, alla vecchiaia e così via, non mi interessano! Anche il papa ne parla di continuo, ma è un problema di sociologi, di medici, di statistici, di politici. Invece – e non sono il solo – mi hanno sempre affascinato i ‘grandi vecchi’, quelli del teatro, della letteratura. Nei miei drammi, cinquant’anni fa, mi interessavano il re Lear di Shakespeare, l’Edipo vecchio e cieco alle soglie della morte, a Colonos, dove incontra lo stesso Sofocle che aveva novant’anni quando lo descrisse. Il Booz della Bibbia e di Victor Hugo… Mi interessa come il singolo vive la vecchiaia. Anch’io ora sto diventando anziano, anzi, vecchio. Si arriva ad esperienze diverse da quelle della giovinezza: queste mi interessano e, a dire il vero, mi hanno sempre interessato. Colonos è la città natale di Sofocle: Edipo guidato dalla figlia Antigone vi incontra Sofocle. Lì qualcosa di magico avviene, il protagonista incontra il suo autore. Poi scompare, ma non si sa se è morto. È un prodigio che capita ad Edipo e in qualche modo anche a Sofocle.

Csillaghy. In questo caso c’entra l’immortalità o la vita ultraterrena?

Hubay. Difficile dirlo. L’aldilà è stato esplorato da molti… Il caso di Sofocle ci dice qualcos’altro, che la morte non può essere colta se non come un altro tempo, non si lascia cogliere altrimenti. È il vecchio Sofocle che racconta se stesso personificato nella veste di un vecchio che gli è caro e che è giunto nella sua terra natale dopo aver vagato per decenni, e che qui trascorrerà un tempo diverso. Certo se accettiamo la teologia cristiana – penso alla Cappella Sistina, al giudizio universale di Michelangelo – dopo la morte incontriamo il giudizio divino che dà accesso al paradiso o condanna all’inferno, o alle fiamme del purgatorio.

Csillaghy. Ma l’immortalità si cerca fra gli uomini, presso di loro, nel loro tempo futuro.

Hubay. Ah, sì, tu pensi alla fama. La fama è una grande consolazione. L’hanno rivalutata nel Rinascimento. Ma bisogna credere nella società, negli uomini.

Csillaghy. O anche al fatto di continuare a vivere nei figli, nei nipoti, di trasmettere qualcosa di sé. Anche Sofocle si consegna proprio a casa sua, alla sua gente. Quanto interessa o non interessa questo tempo futuro, qui in terra, da vecchi? O il tempo presente predomina? Come nei giovani, che se ne infischiano del tempo e pensano semmai alla carriera, al denaro, non al tempo che passa.

Hubay. Il futuro dopo la morte è tutta un’altra cosa rispetto alla carriera. È di un’altra qualità. Pensa a Michelangelo, alla sua poesia da vecchio: ‘Giunto è già ’l corso della vita mia, / con tempestoso mar, per fragil barca, / al comun porto, ov’a render si varca / conto e ragion d’ogni opra trista e pia». E a proposito di Michelangelo ricordo il poeta Mihály Babits che dice: «I buoni da una parte, i malvagi dall’altra e intanto (Santa) Cecilia suona il pianoforte». I grandi impulsi, l’amore e l’arte non contano più. Appartengono a una vita cancellata.

Csillaghy. La giovinezza cancellata. Ma al giorno d’oggi il grande sogno è diventato quello dell’eterna giovinezza. La medicina, la cosmetica, la chirurgia estetica, tutto lavora per prolungare indefinitamente la giovinezza. Sembra che i vecchi vogliano rinunciare non solo ai modi della vecchiaia (senectus ipsa morbus), ma anche ai suoi vantaggi: la sua maestà, la sua dignità, la sua saggezza. La distanza da certe tempeste e stupidaggini non c’è più. Nella commedia dell’arte il vecchio che si atteggia a giovane era oggetto di lazzi e frizzi infiniti.

Hubay. Non solo nella commedia dell’arte ma anche in Plauto e nella commedia antica, da quando esiste, il vecchio o la vecchia che non accettano, o dimenticano, la propria età sono sempre stati sorgente di ilarità. Nella prima commedia di Mihály Csokonay si incontra Karnjóné, una donna che invecchia e corteggia dei giovani per sedurli. Questo dà origine ad una comicità inesauribile, se vista da fuori. Un vecchio o una vecchia che inseguono un giovane o una giovane, visti dalla parte dei giovani ovviamente fanno ridere; ma visti dall’interno, o dall’altra parte, sono un momento molto profondo nella storia di una personalità, anche nella commedia. Basta pensare alla storia biblica di Booz, raccontata anche da Victor Hugo. Booz raccoglie le spighe e una giovane donna, Ruth, lo segue. Poi Booz si addormenta e la giovane gli si accoccola accanto. All’alba la giovane si desta e nel mezzo dormiveglia, contemplando la luna e le stelle, si dice: «Il vecchio è magnifico» (ora ricordo piuttosto la poesia di Hugo che il racconto della Bibbia…). Qualcosa è successo fra loro, nella notte, che fa dire alla giovane che questo è stato un magnifico dono nella sua giovane vita.

Csillaghy. Non so quanto vecchio fosse Booz, il cui nome vuol dire ‘vigore’! Ma c’è, al di là dell’apparenza, un vigore dato dall’esperienza, dal sapere, dall’aver capito.

Hubay. Questa questione l’ho trattata abbastanza a fondo in una commedia che ho scritto molti decenni fa e che è stata rappresentata con successo per quarant’anni da due grandi attori ungheresi, Clara Tolnai e Imre Sinkovics. La commedia si intitola Loro sì, sanno cos’è l’amore. È la storia di un uomo di sessant’anni e si svolge a metà dell’Ottocento, quando sessant’anni erano visti come un’età già considerevole. La donna è di dieci anni più vecchia di lui. Lui è Hector Berlioz, il musicista, lei è Estella, il suo amore dell’adolescenza, che lui verso la fine della vita cerca di ritrovare.

Quando rievoca l’amore di allora Estella gli risponde: «È tardi».
Berlioz: Ma siamo alle soglie della felicità!
Estella: Sì, con mezzo piede nella tomba.
B: È questo che è meraviglioso!
E: Riderebbero di noi. Che cattivo gusto, direbbero. Due mummie e cominciano adesso; pfui che schifo.
B: Scriverò una musica tale… che la gente si metterà a piangere e vedranno che noi, due mortali come chiunque altro sulla terra, abbiamo voglia di vivere; sì due mummie animose, partiamo mano nella mano, per sconfiggere il più grande nemico dell’amore.
E: Che cosa, la morte?
B: No, la vecchiaia… Questo si aspetta da noi l’umanità! Ogni generazione prima di noi ha sofferto per questo motivo ma non ha osato aprir bocca, perché gli han subito urlato: zitto, silenzio, sei vecchio, sei cadente, non scherzerai mica?! Ma la mia musica non si può far tacere! Il desiderio muto di centomila generazioni esploderà con essa… Pam, papam, pam, papam!
E: La sua non è l’esaltazione dell’arte?
B: No, mi perdoni, ha ragione. Non scriverò più una nota… Ogni mio minuto sarà solo per lei.
E: L’anno prossimo avrò settant’anni.
B: Io l’amo.
E: Parole, bugie… Sono vecchia, cattiva. Lo chieda ai domestici. Odio i giovani. Quel che è stato è passato…

Poi B. impugna l’attizzatoio incandescente e la sua mano incomincia a bruciare.
E: Hector, Santo Iddio. La sua mano brucia, lo metta giù.
B: No, finché non mi crede che l’amo.
E: Lo credo, sì.
B: Che l’amo più della mia vita.
E: Ma sì per carità le credo.
B: Dica: credo che Hector Berlioz mi ama più della sua vita.
E: Che Hector Berlioz mi ama più della sua vita (E. prende il ferro per tirarglielo via dalle mani). Pazzo, che pazzo!
B: Non tiri, mi si è attaccata la pelle.

Si tratta proprio dell’amore di due vecchi. È vero che la donna lo rifiuta. Nella vecchiaia l’amore visto da fuori è un tema comico irresistibile, ma visto dall’interno, nella misura di due protagonisti, di due vecchi, l’erotismo è una cosa molto, molto seria. È la vita che continua, che vuole continuare ad esserci. Questo ho cercato allora di capire e non solo il pubblico non ha riso assistendo a questa pièce, ma l’ha sempre accolta prima esterrefatto e poi con grande entusiasmo.

Potrei aggiungere una piccola scena significativa. La grande attrice Clara Tolnai ha recitato questa pièce per quarant’anni in uno dei maggiori teatri di Budapest. Una sera, all’età di ottant’anni, ha recitato la sua parte per l’ultima volta e il mattino dopo è morta. Al funerale il suo partner, l’attore Imre Sinkovics, si è inginocchiato accanto alla fossa e mentre la gente assisteva muta, ha incominciato a recitare con dolcezza l’ultimo dialogo tra i due: «Quando ci rivediamo?» e quindi, recitando anche la parte di lei, ha continuato: «E allora lei risponde: ‘Fra un anno da oggi, se a lei va bene!’». «E allora io rispondo sorridendo: ‘Ne sarò felice, se non muoio prima’». «E lei mi risponde: ‘Se non a Ginevra, ci vediamo nell’altro mondo’». «E io le rispondo sorridendo dalla porta: ‘Invidio Dante! Lui non solo aveva Beatrice, ma aveva anche la fede per credere a questo genere di appuntamenti’».

Csillaghy. La pièce si chiude con una lite fra la figlia di Estella e il marito, al quale la giovane rinfaccia che solo quando un amore ha questa forza, questa vigoria e questa capacità di resistere, è un amore che vale, per così dire, la pena.

Hubay. L’eros nei vecchi raggiunge altezze sublimi.

Csillaghy. Sì, nell’animo dei vecchi non si deve spegnere la passione per la vita. È la giovinezza dell’animo! Non c’è una vitalità da vecchi e una da giovani. C’è la vita dello spirito, della persona, della personalità, finché c’è. Ma nel nostro mondo involgarito, nel quale i privilegi dello spirito cedono con le rughe della pelle, che cittadinanza ha ancora un amore che ha perso le poppe siliconate delle veneri odierne?

Hubay. Mah, l’amore dei vecchi è sempre stato comico. Il non accettare la vecchiaia è un fatto comico, come ogni caduta di fronte all’evidenza. Il negare le evidenze della vecchiaia per certi versi fa ridere. Per altri versi, però, è un fatto eroico. Che il vecchio non si lasci spazzar via, mettere in un cantuccio, buttar giù dall’albero, come si usava, ma che esprima l’energia, l’ispirazione, la forza, il vigore che ha accumulato nella vecchiaia, è drammatico ed eroico.

Csillaghy. C’è la voglia, una voglia che ha sempre più fretta di vivere, di provvedere anche, di esprimersi, magari, quando esprimersi diventa sempre più difficile. Il riposo è un tema abusato per la vecchiaia. La chiamano quiescenza. Come se non si profilasse, dietro, l’eterno riposo.

Hubay. Sì, l’età della pensione.

Csillaghy. Il problema delle pensioni e del lavoro… Certo, ci sono lavori dai quali occorre fuggire, che esigono riposi sostanziosi. Ma la quiescenza mi dà piuttosto inquietudine.

Hubay. Da quindici-diciotto anni, qua e là mi hanno mandato in pensione: dall’Università, dal teatro e così via… ma solo in questi giorni, per le giuste rimostranze della mia famiglia, mi sono deciso a ‘chiedere la pensione’. Non l’avevo mai voluto fare. Con tutte le mie fibre nervose mi sono sempre opposto a considerarmi un pensionato, non mi sono mai lasciato ‘inquadrare’ in questa categoria. E devo dire che mi ha fatto piacere così. Capisco che ad altri faccia bene. A me no.

Csillaghy. C’è qualcosa di strano in questa nozione. È un’aspirazione universale. La consideravi forse una vergogna?

Hubay. Non è una vergogna! Semplicemente non ne ho avuto voglia. Ha a che fare con la pietà.

Csillaghy. Sì, la pietà della gente, del pubblico, ti toglie alcuni diritti; piaccia o no. Sembra un po’ il diritto a ricevere opere di misericordia. Per rinunciarvi bisogna però possedere una certa grandezza, e la salute. E saperne accettare il dramma.

Hubay. Sì, ma io già da giovane avevo incominciato ad ammirare i ‘grandi vecchi’. Una battuta di Re Lear parla delle passioni: «Le grandi passioni – dice – danno dei privilegi». Non è un caso che a ben guardare sono sempre i grandi vecchi i veri privilegiati in ogni tempo. E costoro li tiene in vita la passione. Per essa vale la pena di vivere.

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