VECCHIO NUOVO

Viviamo un’epoca ambigua e piena di contraddizioni, un’epoca di cui si può dire qualsiasi cosa e il suo contrario, ed entrambe le cose sono in generale vere. Un’epoca strana; forse ogni epoca è sembrata strana a coloro che la vivevano. Tuttavia, noi viviamo un’epoca le cui peculiarità sono senza precedenti: ci sono sempre più vecchi, e molto vecchi; si muore sempre più tardi; e nello stesso tempo ci sono sempre più persone convinte che mai prima d’ora, nella storia dell’umanità, la vita e la salute siano state più minacciate. La gente si lamenta continuamente per le condizioni di vita catastrofiche in cui ci troviamo, per gli alimenti contaminati, l’aria e l’acqua inquinate, le condizioni malsane, il rumore… Tuttavia, l’età media della vita non smette di elevarsi e il numero delle persone anziane non smette di aumentare.

Si potrebbe obiettare che, dopo tutto, non è forse un così gran privilegio per una società avere un’enorme quantità di vecchi, e che forse si è più felici quando si è giovani – sebbene non ne sia troppo sicura. Personalmente io non chiederei di rivivere gli anni della mia giovinezza. Sono sempre appassionanti, gli anni della giovinezza, ma nel momento in cui i giovani puntano tutto sulla stessa carta e giocano ogni giorno a ‘o la va o la spacca’, anche la loro vita conosce momenti di angoscia.

Ma non solo l’età in cui si muore è spostata sempre più in avanti: accade anche che i vecchi restino giovani molto più a lungo. Ce ne accorgiamo con sorpresa quando osserviamo le donne. Ne conosco molte che sono già nonne e che sembrano le sorelle delle loro figlie: sono delle giovani donne. Pensate invece ad Alceste, il protagonista del Misantropo di Molière: ebbene, questo vecchio barbogio di Alceste, che è così folle da voler sposare una giovinetta, in realtà ha solo 39 anni! La giovinezza oggi dura molto più a lungo. Le persone molto vecchie, mentre la morte si avvicina inevitabilmente, mi sembra ci credano sempre meno. L’ho osservato spesso: man mano che gli uomini – intendo gli uomini e le donne – invecchiano, si abituano così tanto a vivere e la vita diventa per loro un’abitudine così radicata, che poi non credono quasi più alla morte. Certo, se glielo domandate, razionalmente sanno di non essere immortali quaggiù, ma non hanno davvero il sentimento profondo che la morte verrà. In loro si è fatto largo qualcosa di più pericoloso, io credo: la convinzione di avere diritto a non morire. Dal momento che sono riusciti a vivere così a lungo, che hanno saputo tenere la morte a distanza, sembrano convinti che se la morte sopraggiungesse, sarebbe una specie di scandalo, e allora semplicemente non vi credono.

Credo che per gli esseri umani di tutte le età, ma in particolare per le persone anziane, sia necessario credere alla morte, accettare profondamente la propria mortalità; altrimenti si finisce per farsi ossessionare dai problemi di salute. Conosco persone anziane che passano il tempo, da mane a sera, e probabilmente anche di notte quando si svegliano, a tastarsi a destra e sinistra, dalla pianta dei piedi alla punta dei capelli, passando per tutti gli stati psichici immaginabili, alla ricerca di sintomi di salute o di malattia. Non c’è niente, credo, che faccia invecchiare di più e che renda più prossimi alla morte di questo genere di ossessione. La vita perde di umanità perché rimane invischiata in se stessa. Sono contenta di essere così vecchia da potervelo dire con semplicità e legittimazione: la morte è più leggera quando la vita non è invischiata in se stessa, e non è vissuta come se fosse il bene supremo, come qualcosa che non può essere subordinato a niente.

La vita umana non è fatta per essere considerata il bene supremo. La vita è la vita solo se non è considerata il bene supremo. Rischiamo sempre la nostra vita. Sacha Guitry disse un giorno: «Il lavoro non è fatto per l’uomo. La prova? Lo affatica». Aveva ragione, in un certo senso. Solo che è proprio della vita affaticarsi, affrontare il rischio, in nome di qualcosa che si trova al di là della vita stessa, per quanto la vita sia preziosa. Non sto svalutando la vita, ma è il paradosso della situazione umana: nella misura in cui si tiene alla vita, bisogna che essa non prenda se stessa come fine ultimo. Perché se la vita prende se stessa come fine ultimo, perde di senso, e quando perde di senso, si asservisce e perde la sua dignità.

Penso di avere appena pronunciato una parola estremamente importante. Non sono una persona particolarmente fissata con la dignità. Ma credo che la vecchiaia debba avere, naturalmente, una certa dignità, che deriva proprio dal fatto che la vita è stata in gran parte già vissuta, bene o male, irreparabilmente, e che deve essere accettata per come è stata vissuta. Per questo motivo, bisogna servirsi della morte, convincersi davvero profondamente che tutti gli uomini sono mortali, che Socrate è mortale, come nell’esempio della grammatica, e che anch’io sono mortale. Credere e sapere questo: ecco un punto d’appoggio forse tra i più solidi che si possa avere, e una fonte di senso piuttosto che di non senso. È perché siamo mortali, ed è a causa della morte, del termine che è la morte, che ogni momento, ogni presente del tempo che viviamo ha il carattere di momento unico. Se vivessimo nell’indefinito di una vita senza fine, ogni punto del tempo sarebbe indifferente e interscambiabile.

È la certezza della morte che conferisce un valore inestimabile a ogni presente, a ogni momento presente che costituisce la nostra vita. È questo che dà valore alla vita, alla durata della vita, e per rispetto e riguardo della vita occorre avere una coscienza profonda e viva della necessità e dell’imminenza, in un certo senso, della morte. La morte quindi non è più una minaccia per la vecchiaia, ma una promessa e un punto di appoggio, a prescindere dall’amore che si può avere per la vita. La morte è certa, pressoché la sola cosa certa.

Ma quello che è incerto rispetto alla morte e che costituisce con essa una sorta di amalgama terribile, quello che è incerto e che fa paura, è il passaggio alla morte, il dolore che minaccia, il ‘come’ della morte. Fortunatamente i progressi della medicina, che negli ultimi anni sono stati considerevoli, molto più considerevoli di quanto ci si immagini comunemente, possono aiutare a superare almeno in parte questa incertezza, possono alleggerire lo sforzo che ogni persona anziana deve compiere per consentire interiormente all’inevitabile.

Ma ci sono anche altre minacce: l’infermità, la dipendenza dagli altri, la paura di cadere un giorno nel proprio appartamento e di non avere nessuno che ci soccorra, la solitudine, la povertà, tutte minacce che fanno da corollario alla paura della morte, e che in generale sono difficilmente dissociate dalla morte stessa. I parenti e la società si sforzano sempre di più, io credo, di attenuare queste minacce, ma non possono eliminarle. Rimane ancora una grande incertezza foriera di una paura ineludibile; anche qui, però, la prospettiva della morte può apportare un certo sollievo. Per esempio, attenuare la minaccia dell’infinita durata di certe sofferenze, rassicurarci sulla loro fine, aiutarci a prendere interiormente distanza, almeno un poco, da un bisogno dominante.

La persona anziana, se ha un bisogno troppo dominante di qualche cosa, dovrebbe essere capace di distaccarsene in modo da vivere quello che gli capiterà non come uno scandalo o la violazione di un diritto, ma come un modo di patire la comune condizione umana, il cui esito certo è la morte.

La cosa più dura della vecchiaia è forse la morte degli altri. Man mano che s’invecchia, la morte guadagna sempre più terreno intorno a noi. Il mondo intorno alla persona anziana la abbandona prima di lei. Con ogni morte se ne va un mondo. In questa situazione, la più terribile della vecchiaia avanzata, si tratta di lavorare su di sé, e penso che questo lavoro sia fondamentalmente filosofico. Si tratta di ritrovare quello che chiamerei ‘l’essere del passato’. Ci sono persone che credono che il passare del tempo sistemi tutto perché tutto cancella. È vero, il passato è passato, ma niente può fare che esso non sia stato e che esso non sia stato quale è stato. Credo che questo cammino debba essere intrapreso da ciascuno di noi, ma in modo particolare dalle persone anziane. È uno dei cammini attraverso cui possiamo in un certo modo riconciliarci con la nostra morte e con quella di coloro che muoiono intorno a noi.

Ma la vecchiaia offre anche delle opportunità. Le opportunità della vecchiaia occorre prepararle. Ma attenzione, qui, a un nuovo paradosso della condizione umana. Questo paradosso consiste nel fatto che le cose essenziali, le cose più importanti nella vita umana, si preparano sempre indirettamente, e per così dire, senza pensarci. Troverei catastrofico che si comprasse una stanza in un ospizio per un neonato. La vita non è destinata a preparare la vecchiaia, a preparare la morte. E tuttavia, ci si prepara a esse molto tempo prima senza pensarci. Come si fa? Certo, non cercando di godere tutta la vita di quel ‘perfetto benessere fisico, psichico e sociale’ che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità è la definizione di salute. Al contrario, si tratta di trovare ciò che dà senso alla vita. Di conseguenza, ci prepariamo alla vecchiaia e le offriamo delle opportunità se, ben prima di diventare vecchi, impariamo a tenere a certe cose più che alla nostra vita, e queste cose sono ciò che dà senso alla vita. Nella misura in cui ci siamo proposti qualche cosa per il futuro, nella misura in cui ci siamo protesi verso qualche cosa o qualcuno, la vita ha un futuro, anche nella vecchiaia e fino alla morte. Il futuro per l’uomo è ciò a cui egli aspira. Il futuro non è una durata lunga, molto lunga, non è la durata più lunga possibile. Il futuro è il mio proposito, è quello che ho davanti a me e quello che ancora voglio raggiungere. E la capacità di avere un’aspirazione fino alla morte la si prepara in ogni momento, ma indirettamente, perché non ci pensiamo, siamo tutti assorbiti dall’oggetto di questa aspirazione, da quello a cui si aspira, ed è questo che fa sì che, nella vecchiaia e sulla soglia della morte, abbiamo ancora un futuro.

Quando la sicurezza sociale cancella o attenua considerabilmente la paura dei bisogni materiali, la paura del vuoto, quando essa cerca di porre rimedio a questi mali, il suo principale merito non è tanto di far sentire la persona anziana meno inquieta, ma di permetterle, grazie a questa sicurezza sociale, di dimenticare se stessa. D’altronde, tutte le misure di sicurezza sociale sono più destinate alla libertà che danno all’individuo che alla soddisfazione immediata e diretta dei bisogni: grazie ad esse, non siamo più assorbiti dalla preoccupazione per il futuro, siamo liberi per altro, possiamo dimenticare noi stessi. Poter dimenticare se stessi è un grande lusso. Del resto, uno degli aspetti più terribili del dolore fisico sta nel fatto che mentre lo si patisce non ce ne si può dimenticare. La sicurezza permette alla persona anziana di pensare ad altro. È questo che spiega, io credo, la straordinaria giovinezza di certi grandi artisti creatori, nella storia dell’arte, della letteratura o della musica, rimasti giovani quasi fino a cent’anni; per tutta la loro vita, fino alla fine, sono stati concentrati su altro che loro stessi, vale a dire sull’opera che erano intenti a creare.

Una condizione fondamentale della salute e della libertà è di mirare a qualcosa d’altro che a se stessi, qualche cosa verso cui ci si protende, che dà senso alla vita e che rende possibile ciò che io chiamo l’atto di presenza al presente. Rispondo a ciò che è, ora. In questo caso, ma come sempre, la salute mentale, vale a dire questa salute della libertà, che non è mai un risultato a cui si possa mirare direttamente, è importante. Essa risiede nell’oblio di sé da parte di colui che aspira a qualche cosa; non s’insegna, ma si esercita, e il metodo qui, se si vuole aiutare qualcuno, è di sollecitare le occasioni di questo oblio di sé.

Questo è, io credo, il paradosso della serenità, che non esclude né la sofferenza né lo sforzo. Credo che, tanto filosoficamente che religiosamente, la serenità non si fondi sull’elusione della morte. Non si tratta di pensare: ‘se martedì muoio, forse mercoledì sarò ancora da qualche parte’. Né si tratta di barare con il tempo. Si tratta, invece, di accettare di attraversare la condizione umana, in qualche modo di aprirvi un varco, e di accettare di patire in vista di certi fini più importanti. È così che possiamo restare mentalmente in salute. Altrimenti, se facciamo della salute il nostro scopo e la nostra ragione d’essere, ben lontani dal restare in salute, ci inaridiamo, ci annoiamo e diventiamo le vittime di ogni nostra paura. La vita, alla quale le persone anziane rimangono spesso ostinatamente attaccate, perde il senso che è la condizione del suo valore. Così stanno le cose, credo, nella condizione umana tutta intera.

Occorrerebbe, forse, dalla prima infanzia alla vecchiaia, includendo tutte le età intermedie, rendere gli esseri umani coscienti della meraviglia, del miracolo che è la presenza dell’essere umano al mondo. C’è un essere umano di fronte al mondo: per vederlo, ascoltarlo, comprenderlo, agire e amarlo. L’essere umano: questo testimone unico, senza uguali, da cui il mondo è trasfigurato in coscienza e progetto. Nel mondo non c’è nient’altro di simile, e questa meraviglia è presente anche quando la vita si protrae nella vecchiaia, perché la vecchiaia rimane un compito per la libertà.

* Questo testo è liberamente tratto da Le grand âge aujourd’hui: menaces, chances, sérénité, in «Société Suisse de Gérontologie», Berna 1986; traduzione di Francesca De Vecchi in «aut aut», Milano 2003.

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