VECCHIO NUOVO

L’allungarsi del corso medio della vita fa sì che il nostro sia un mondo di vecchi e pone l’interrogativo: quand’è che comincia la vecchiaia? Qualche secolo fa poteva cominciare a quarant’anni poi, via via, quell’inizio si è spostato in avanti. A quarant’anni noi siamo ancora quasi giovani, nel pieno della forza e della vitalità. Bisogna raddoppiare quella cifra per poter parlare – ad ottant’anni – di vecchiaia, ma di vecchiaia ancora viva e vegeta, ricca di forza, di saggezza e di esperienza. Ottantenni – anno più, anno meno – sono Napolitano, Ciampi, Scalfaro, Benedetto XVI e nessuno, di certo, penserebbe di sottovalutarli e di applicar loro quell’etichetta vezzeggiativa (ma di un vezzeggiamento che suona come offesa) contenuta nel termine ‘vecchietti’. Nessuno certo di questi personaggi – e di altri come loro – è un vecchietto, forse non è nemmeno vecchio, nel senso di una decadente senilità. Ingrao ha compiuto da poco i novant’anni, ma neanche lui, nel succitato senso, è un vecchio, tanto meno un vecchietto. Così, per restare nell’ambito politico, la Rossanda, se non erro, ha compiuto, lei pure, gli ottanta e neanche lei è vecchietta né vecchia.

Ma quando comincia la vecchiaia? Certo più tardi di un secolo fa, ma quando poi collocar di preciso quell’inizio è difficile dirlo perché è un inizio che – a voler stare non alla cronologia ma alla vitalità – cambia da persona a persona e, a stabilirlo, non basta la carta d’identità con i suoi dati puntuali, precisi, ma statici ed eguali per tutti.

C’è infatti una vecchiaia biologica e una vecchiaia psicologica e le due non sempre coincidono. E, nell’accezione psicologica, come capacità di azione culturale, sociale e politica, si può essere vecchi a quarant’anni e giovani a ottanta.

Il suddetto allungarsi della vita fa sì che il nostro sia un mondo abitato, in gran parte, da vecchi, ma non necessariamente da vecchietti, poiché il protrarsi della vita porta con sé un protrarsi di vitalità, di interessi, di vivacità. Insomma, vecchi lo si è sempre di più, vecchietti sempre meno.

Ciò nonostante siamo ammalati di giovanilismo. Sembra passato il tempo nel quale si onorava ‘la veneranda canizie’ e ai vecchi si faceva ricorso per attinger, da loro, esperienza e saggezza. Il culto della bellezza e della forza inevitabilmente ci allontana dalla vecchiaia che è, pur sempre, decadenza. Si decade più tardi ma si decade inevitabilmente, fino all’esito finale della morte, che può colpire anche i giovani ma, da vecchi, più spesso. E la rimozione della morte ci allontana ancor più dalla senilità.

Oggi noi proclamiamo ‘largo ai giovani’ ma non ho mai sentito proclamare ‘largo ai vecchi’.
I giovani – sempre diciamo – sono il domani, il futuro del mondo; ma senza il passato (ci si perdoni il bisticcio) il futuro non ha futuro: è una proiezione vuota, priva di contenuto.
Ieri, oggi e domani, passato, presente e futuro fatalmente s’intrecciano e non c’è vecchiaia che non abbia, alle spalle, giovinezza, né giovinezza che non abbia, davanti a sé, vecchiaia.

Ieri e domani, e in mezzo c’è l’oggi: un punto mobile il cui trascorrere segna il trascorrere della vita. È la perenne dialettica del mondo, tra la vita e la morte, tra l’inizio e la fine. Benché, per il credente (e tutti i popoli, tutte le civiltà l’hanno creduto) la morte non sia la fine ma un sempiterno inizio.

multiverso

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