S/VELO

Mi pare fosse Karl Marx – ma non ne sono sicuro – colui che paragonò le relazioni giuridiche, politiche, culturali a una ‘superficie’, o magari oggi si direbbe a una ‘bolla’, che ricopre i rapporti di produzione. E quando i secondi cambiano, la crosta resta vuota, salvo crollare per essere ricostruita in altro modo. Magari la metafora è da aggiornare, perché i ‘rapporti di produzione’, il capitalismo cioè, nella sua forma moderna ‘usa’ la vita stessa delle persone e delle comunità, colonizza i beni comuni e la conoscenza, ‘crea’ una società di consumatori non più cittadini, tanto meno produttori. Ciò non toglie che la rappresentazione della rappresentanza – scusate il gioco di parole – corrisponda a un contenuto che non c’è più. Come ci ha ricordato Mario Pezzella (docente di estetica alla Normale di Pisa e collaboratore di Carta), citando Guy Debord, le due metà della rappresentazione veltroniana di una ‘nuova stagione’ – la Festa (del cinema) e l’Emergenza (sicurezza) – sono due facce della stessa attitudine della politica: «Si delinea così – scrive Pezzella – un regime misto, ed elementi di sostanziale autoritarismo si ibridano con la scenografia della democrazia di mercato, i cui organi – dal parlamento, alla stampa, alla magistratura – appaiono sempre più svuotati di ogni potere reale». Ed è questo, come racconta il nuovo libro di Marco Revelli, Sinistra e destra, le identità perdute, il contesto novecentesco in cui opzioni opposte, quanto a visioni del mondo, riassumibili nell’opposizione tra eguaglianza e gerarchia, si sbriciolano in una competizione confusa intorno all’amministrazione dell’esistente. Cioè di un paradosso, dice Revelli: che viviamo in un mondo in cui l’ineguaglianza non è mai stata tanto drammatica. Eppure, la sinistra si scioglie, la sua differenza è meno percepibile.

Viviamo nel tempo del velo. Una specie di sinistra indigena, che si qualifica soprattutto perché nasce e resta ‘in basso’ (los de abajo) sceglie come suo segno il passamontagna, quello del subcomandante Marcos: serve a rendere visibile colui che è invisibile, l’escluso, dalla storia e dalla politica, e dall’economia-mondo. Gli indigeni, appunto, tanto alieni alla civiltà occidentale e illuminista della Ragione da poter proporre qualcosa di nuovo, quando la promessa europea del progresso per tutto il mondo si rivela, all’opposto, l’incubo dell’ineguaglianza senza limite. Un altro genere di democrazia (comunitaria e diretta), un’altra relazione (non strumentale, non drogata dalla crescita infinita) con la terra e l’ambiente, la giustizia sociale (‘para todos todo’, dicono gli zapatisti), l’autogestione (i municipi autonomi). Dal fondo di una selva, in uno stato sconosciuto e poverissimo della federazione messicana, dagli ultimi degli ultimi, è venuto il mezzo per disvelare ciò che nella democrazia occidentale si mostra per nascondere.

Niente passamontagna, nei parlamenti e nei talk show televisivi: ciò che conta è l’apparenza. È impressionante constatare quanto non abbia importanza quel che si dice nella comunicazione politica, quanto il tono con cui lo si dice. Si può affermare qualunque cosa, per essere efficaci l’importante è rispettare i tempi televisivi. La politica non progetta e non immagina il futuro, non conosce più nemmeno la società: la racconta e la commenta, la condensa in emergenze trattate come rappresentazioni teatrali frenetiche. Il modello sono Totò e Peppino, il comico e la spalla, i tempi comici.

Una donna viene uccisa in una oscura viuzza della periferia romana; l’assassino presunto è un rom rumeno: di colpo, l’organizzatore della festa (Veltroni sindaco di Roma) si converte nel promotore dell’emergenza (Veltroni segretario del Partito democratico), il consiglio dei ministri si riunisce d’urgenza, un decreto viene approvato all’unanimità, tutti i media scaricano parole e immagini sui cittadini-consumatori. Il ministro di Rifondazione vota a favore, dice poi, perché quella pressione della stampa era insostenibile. Bisognerà studiarla, quella serata, scriverci saggi sulla comunicazione del potere.

Ciò che scompare è la sostanza: in che modo questo tipo di capitalismo, il neoliberismo, abbia come effetto collaterale l’esclusione di grandi fette di umanità, ormai forse la maggioranza nel pianeta. Così che lo scopo della politica, quello di portare ordine nelle relazioni sociali, ossia convivenza pacifica, si rovesci nel suo contrario – dice Marco Revelli – ovvero nell’incitamento alla guerra di tutti contro tutti: io italiano discrimino voi stranieri, io romeno discrimino voi rom, e così via. Il fallimento della politica però si traveste in operazioni di marketing: primarie e ‘leader’ scelti dal popolo, sindaci eletti direttamente, grandi adunate con suoni e colori detti ‘convention’, ‘duelli’ televisivi tra ‘candidati premier’. Il frastuono aumenta man mano che la polpa si rinsecchisce: sempre meno iscritti a partiti organizzati in circoli nelle città e nei territori, sempre meno comunicazione e controllo dal basso verso l’alto, nessun dibattito tra alternative reali.

Perché, poi? Il potere è altrove, lo stato-nazione è ridotto al rango di guardiano della legge, e la sola legge è quella del mercato. I cui poteri sono, come Dio, ovunque, nei consigli di amministrazione e nelle banche, nelle borse e nelle società di ‘rating’. E sono impegnati, ora che le conseguenze di un mercato che ha come sola bussola la profittabilità a breve, a travestirsi anch’essi: in industria ecologica, in banca non profit, in multinazionale che sposa la responsabilità sociale.
È quel che accade quando ciò che sta finendo non finisce di finire, e ciò che sta incominciando comincia solo a incominciare.

multiverso

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