CRAC

Le mele invernali in silenzio cadono dal ramo, fanno un suono dolce che si sdoppia. Uno resta sospeso tra l’erba e la polvere, l’altro, per colmare il vuoto, si fa vita di una minuta grandezza. Esistono donne vestite di nero che conoscono questa magia, le raccolgono mettendole in un cesto, e attraversano così i cerchi selvaggi delle lacrime, identiche e distinte, che si asciugano sulle pietre calde.

Mentre noi che lasciamo a terra la borsa, continuamente cresciamo, il carico in spalla. Camminiamo da soli, lontano dalla bellezza, ad anticipare il tempo, che dia un segno al carattere delle cose, alla fatica esile del centro. Accade, a volte… chi dorme dentro di noi si alza come foglia al vento e per non perdersi si aggrappa alle parole, le tocca, le sceglie, si placa e le deforma. Il fuoco è lontano e alla vedetta l’acqua gli sta accanto. Insieme al bel tempo viene la pioggia, ed è meglio che alla lunga ci si abitui. Con parole eterne e poi banali puoi misurare lo spazio tra la terra ed il sole, mentre aspetti all’ombra che la luce faccia rossi i pomodori e i vitelli attraversino il campo di granoturco.

Crack è un termine che sta tutto in gola e non passa come l’amore dentro il nodo di un fazzoletto bianco. Così l’uomo che vedi piangere sulla foto del giornale, ha il volto di un vaso millenario, ma tu non senti la mancanza tra i tuoi poderi, non hai bisogno dei suoi cocci. Lo stampatore rinuncia alle risposte sincere, perché è un mestiere difficile cantare tre volte in tutte queste lingue, prima dell’aurora. Lungo la via la città è spumosa, è un cigno altero, la mercanzia la porti a casa. A destra il Caffè Meraviglia, la profumeria, la farmacia, la lista delle nozze, il bancomat, a sinistra ciò che resta, il Caffè Meraviglia, la profumeria, la farmacia, la lista delle nozze, il bancomat. Se giri l’angolo, come non avesse un senso, trovi onoranze funebri la Nuova Luna chiuso per ferie, sia lodato Dio che non reclama la sua parte così presto. Più in là, nell’impasto del cemento, c’è un barbone, un immigrato, un clandestino, un nero, una zingara, una schiava, una suonatrice di violino. Li schiacciamo come mosche che anneriscono una pagina, niente reddito, né dignità. Niente soldi per le tasse dai lontani mondi, in questa vita agiata che non ti riporta a casa. Il martedì, il giovedì e il sabato, lo smarrimento si perde al Grande Magazzino delle Fortune e sui palmi delle mani in un minuto si consumano decine di secoli. Se si esiste solamente, una sola stella non basta e un colpo di fionda fa impallidire la luce del cielo.

Ora noi qui si mangia, si beve, si sta bene. Attraversiamo il ponte tenendoci sottobraccio, per i futuri argomenti, identità, istinti, deboli emozioni, nidi vuoti di rondini, bottegai, economisti, l’odore del muschio lontano, bocche scomposte che sollevano i mari. Stanotte il mondo ritornerà a dormire. Tra le stanze illuminate non da lampade al petrolio, ci sono mille modi per guardare oltre i tetti, dopo i giorni della fiera, c’è chi dice addio alla sua vita. Questo l’universo non lo vuole, perché non ha una ditta per le riparazioni, ma dopo una giornata carica di stanchezza, potenza, ambizione e debolezza, ti infili le pantofole e ti fai gli affari tuoi. Non disturbare il sonno di un bambino, né il crollo delle borse. Pur tuttavia, non solo per questo siamo arrivati. Vogliamo costruire la nostra casa, fare carriera, concludere gli affari, anche se dopo vomitiamo.
Non tutto guarirà alla luce del Sole, lui ricco e fecondo, fermo sulla cima dell’abete che cederà alla stanchezza. Dove non c’è silenzio, stupore, gioia, l’anima ci abbandona per consultare il suo lunario. Se nel buio senti un passo familiare dagli la tua preziosa voce. Il bollettino dice che il vento stanotte è stato a lungo in lotta con le vele. Mentre una donna da un letto di fiume osserva l’orlo sottile della luna, il suo petto sa di latte affumicato e non c’è un perché alla sua unità col mondo, adesso che con le labbra sfiora i fogli di una lettera. Sono tanti gli amori di questa vita, ci siamo svegliati e trasformati in un canto e solo dopo abbiamo imparato le sue parole, onde battenti del cuore. Chi indossa stracci bagnati in inverno è un filo d’erba per il cielo, chi nei suoi sogni scrive per ricordare usa pioggia, vento, e nebbia e il verde dei suoi frutti. Se quest’anno gli aironi non sono tornati, guardiamo dalla finestra i bambini che corrono sulla neve e girando svelti su se stessi, come il loro angelo custode ad ogni passo fanno crack.

multiverso

8-9