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Andrea Lucatello intervista Wajeha Al-Huwaider

Lucatello. Quella saudita è una società estremamente classista, in cui non tutte le persone hanno le stesse tutele e la pari dignità. Per protestare contro queste discriminazioni, lei ha recentemente scritto un piccolo poema dal titolo ‘Quando’.
In questo numero «Multiverso» si interroga proprio su ‘quando’ un sistema, apparentemente solido e compatto, possa venire messo in discussione nella sua autoreferenzialità. Può parlarci delle situazioni che nel suo Paese, in materia di difesa dei diritti umani, lei ritiene tra le più urgenti?

Al-Huwaider. In Arabia Saudita, a essere violato è il valore stesso della vita umana. Più della metà dei cittadini sono considerati cittadini di seconda classe. Alcuni fanno parte di minoranze che subiscono continue discriminazioni, altre, le donne, si trovano in una condizione anche peggiore. Sono ‘minori’, nel senso che sono trattate come se fossero bambine: non sono considerate in grado di decidere per conto loro. Non possono studiare o sposarsi, non possono uscire di casa o viaggiare, non possono accedere a un lavoro o alle cure mediche senza avere l’autorizzazione di un tutore maschio. Ritengo che, in generale, le priorità più urgenti in materia di difesa dei diritti umani dovrebbero riguardare principalmente tre aspetti: eliminare le discriminazioni tra uomini e quelle tra uomini e donne, garantire la libertà di espressione e quella religiosa, introdurre criteri di laicità soprattutto nella scuola e nel sistema giudiziario.

Lucatello. Spesso lei ripete che queste condizioni «non sono un complotto occidentale, ma il prodotto del suo stesso paese», invitando tutti a impegnarsi in prima persona: se una legge è disumana, ribellarsi diventa un dovere. Lei stessa si è fatta interprete di alcune azioni che hanno voluto mettere in evidenza le contraddizioni in cui soprattutto le donne saudite si trovano a vivere ogni giorno. Cosa può dirci di questo suo cammino?

Al-Huwaider. Le leggi saudite proibiscono qualsiasi forma di dissenso e contro le ingiustizie è vietato protestare anche pacificamente. L’unica concessione è quella di poter scrivere al Re o a un membro della sua famiglia, ma spesso non arrivano risposte. In questa situazione ho perseguito diverse azioni di disobbedienza civile, sempre osservando il principio della non violenza. Oltre a scrivere petizioni alla famiglia reale, come giornalista ho scritto articoli e libri di denuncia, ho anche diffuso dei video coi quali ho posto l’attenzione dell’opinione pubblica su alcune questioni, come quella per cui alle donne è proibito guidare, andare in palestra o suonare in gruppi musicali.

Lucatello. Queste iniziative hanno avuto effetto? Ritiene che, anche se lentamente, possano essere un motore per il cambiamento dei rapporti politici e sociali, soprattutto quando i regimi fondamentalisti si chiudono e si irrigidiscono nelle loro posizioni più retrograde?

Al-Huwaider. Sì, il mio lavoro sta avendo effetto su quanti soffrono quotidianamente e viene particolarmente seguito dalle nuove generazioni. Le mie azioni hanno anche fatto in modo che voi abbiate sentito la voce della lotta delle donne saudite e questa voce è arrivata fino alle Nazioni Unite, allo Human Rights Council, allo Human Rights Watch, ad Amnesty International e ad altre Ong. Questo mi spinge, ancor di più, a continuare, e continuerò fintanto che non sarò testimone del raggiungimento dell’uguaglianza per tutte le donne del mio paese. È per questo che il mio invito a non rassegnarsi è indirizzato soprattutto a loro, alle donne, anche a quelle che sono dentro le istituzioni. Da noi, per esempio, non c’è un vero e proprio parlamento, ma l’Al-Shura Council, dove i membri sono nominati direttamente dal Re e dove attualmente ci sono dodici donne, che svolgono ruoli minori, di pura consulenza, senza nessun potere decisionale.

Lucatello. Fino a che punto ci si può sentire libere, se poi non viene rispettata e garantita alcuna possibilità di autodeterminarsi?

Al-Huwaider. Come ho già detto le donne saudite, per legge, essendo considerate ‘immature’, devono sottostare al Male Guardianship System che le sottomette al totale controllo degli uomini. Le donne sono trattate come una proprietà dell’uomo, vivendo in condizione di schiavitù. Pertanto, la risposta è no: la donna saudita non può sentirsi libera se non è rispettata e non può disporre della sua stessa vita.

Lucatello. Nella diffusione del suo pensiero, la tecnologia svolge sicuramente un supporto fondamentale (internet, video, youtube), ma nella vita di tutti i giorni, in cui non sempre e non tutti accedono a queste modalità di informazione, quali sono le azioni che possono lasciare un segno per nuove forme e nuove pratiche di convivenza?

Al-Huwaider. Anche nelle azioni più semplici cerco di sensibilizzare le donne saudite affinché affermino i loro diritti. Per esempio, per diffondere il mio messaggio a tutte le donne, giro nelle strade e nei malls scoprendomi la faccia e indossando l’abaya di color rosa. Anche questo può essere sufficiente perché si interroghino sulla loro identità e sulla loro condizione.

[Traduzione di Amanda Hunter]

Chi è la donna che ogni giorno torna al confine tra Arabia Saudita e Bahrain, solo per essere respinta? Sono io. E chi sono io? Nativa della città di Hufuf, dove crescono i migliori datteri del mondo, quarantasettenne madre divorziata di due adolescenti, impiegata. Non sono una persona pericolosa, perciò perché mi respingono? Perché mi rifiuto di mostrare ai funzionari un documento firmato dal mio ‘tutore maschio’ che mi permetta di viaggiare. Io sono in possesso del documento, ma trovo umiliante doverlo produrre solo perché sono una donna. Perciò ho deciso di tentare di uscire dal paese rompendo questa regola: ho chiesto ad altre donne saudite di farlo e molte, nelle scorse settimane, mi hanno ascoltata. L’avere un ‘guardiano’ è solo una parte del meccanismo che soggioga le donne in Arabia Saudita. Ad esempio, senza il permesso del suo tutore una donna non può guidare un’automobile: ovviamente non c’è nulla nel Corano al proposito, ma spostarci da sole allenterebbe il controllo che gli uomini hanno su di noi. Una donna saudita non può andare da nessuna parte se non indossa l’abaya, un orrendo mantello nero che deve coprire i vestiti normali. Potete immaginare quanto sia divertente quando ci sono 30-40 gradi all’ombra e vedete gli uomini sauditi vestiti di fresco bianco. Le donne non possono fare sport: e con un abaya addosso come sarebbe possibile? Una donna può ottenere un divorzio, ma solo attraverso una lunga e laboriosa procedura, mentre un uomo può divorziare semplicemente dicendo la sua intenzione tre volte. In questi giorni le autorità religiose stanno dibattendo se un uomo debba proprio dire questo di persona, o se basti un messaggio sul cellulare. Un giudice a Jiddah ha già approvato un divorzio del genere: il marito era in Iraq per partecipare alla guerra santa. E un uomo può legalmente sposare una bambina di sette od otto anni, e la poligamia, sino a quattro mogli, gli è concessa. Queste pratiche hanno rovinato innumerevoli vite, e ne hanno cancellate altrettante, ma naturalmente ci sono anche donne che non sostengono le mie cause, donne i cui ricchi mariti beneficiano dallo status quo o donne che non credono nel cambiamento. Io sono diversa. Non so perché. Forse perché mia madre mi permetteva di giocare a pallone con i miei amichetti maschi, e io sono cresciuta sentendomi uguale a loro. Forse perché ho un lavoro sicuro e non dipendo da nessuno. Forse perché credo che le donne siano persone, e non proprietà.

Wajeha Al-Huwaider, in Notizie minime della non violenza in cammino, n. 951 del 22 settembre 2009.

[Traduzione e adattamento di Maria G. Di Rienzo]

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