CRAC

Il terremoto ha una natura duale che ne ha in parte condizionato anche la conoscenza scientifica. Da un lato, infatti, è un fenomeno geologico che accompagna l’evoluzione del nostro pianeta sin dall’inizio del suo consolidamento e contribuisce, sia pure in misura minima, al modellamento della superficie terrestre; dall’altro è un evento dannoso o catastrofico che è in relazione con l’aspetto geologico molto meno di quanto non lo sia con l’uomo e con le sue opere e che può essere contrastato in larga misura anche indipendentemente dalla conoscenza profonda delle sue cause fisiche.

Può sembrare paradossale che mentre il fenomeno geologico è intimamente legato al crac, quello socio-economico lo è molto di meno o, almeno fino ad oggi, non lo è mai stato.

Iniziamo con la natura fisica del terremoto: il modello oggi preminente è quello di Reid (1910) secondo cui esso si pone alla fine di un processo geologico durante il quale una certa parte della litosfera si deforma più o meno lentamente fino a raggiungere il suo limite di rottura; a questo punto avviene una frattura, generalmente assai complessa nella sua geometria ed evoluzione temporale: il crac, che i geologi chiamano faglia perché con esso non si realizza solo una semplice discontinuità fisica dei corpi rocciosi (frattura o rottura) ma anche un loro spostamento relativo.

La faglia può essere immaginata come la macchina che trasforma ciò che rimane dell’energia di deformazione dopo la rottura in energia termica e in energia cinetica, ovvero in vibrazioni che raggiungeranno la superficie terrestre producendo gli effetti che tutti conosciamo. Il crac, però, è ancora più intimamente legato al fenomeno sismico sino dalla fase che precede la fagliazione.

Mutuando, infatti, i risultati delle esperienze sperimentali degli ingegneri metallurgici dell’inizio del secolo scorso, si assume che la faglia costituisce la fase terminale di un processo di microcracking anelastico che avviene in una porzione della litosfera dapprima caoticamente poi, via via, in modo più ordinato fino a concentrarsi in due piani ortogonali, uno dei quali sarà proprio il piano di faglia, ossia il piano lungo il quale avverrà il distacco dei corpi rocciosi e il loro scorrimento relativo.

Dal punto di vista dell’impatto sull’uomo si potrebbe pensare che un evento così improvviso, violento e distruttivo debba necessariamente causare discontinuità nella struttura economica o sociale dei territori colpiti.

Già nella Bibbia il terremoto è interpretato come strumento radicale della volontà divina (ciò verrà del resto affermato solennemente nella risoluzione di un Concilio del V secolo che definisce eresia il volerlo ritenere fenomeno naturale); ad esso, infatti, possono essere collegati eventi come la distruzione di Sodoma e Gomorra, il crollo delle mura di Gerico assediata da Giosuè, l’aprirsi delle acque del Mar Rosso (la possibile trasfigurazione di uno tsunami) al passaggio del popolo di Mosè.

Più lontano ancora, in Cina, si vuole che il primo rudimentale strumento per la rilevazione dei terremoti (noi oggi lo chiameremmo sismoscopio) sia stato progettato e costruito per ordine di un imperatore che voleva essere in grado di inviare tempestivamente l’esercito a sedare le rivolte che i potenti locali tentavano, approfittando del caos provocato dai sismi più forti.

Avvicinandoci ai nostri tempi va però rilevato che raramente, o forse mai, i terremoti, per quanto violenti e dannosi, sono stati all’origine di crac sociali o politici, anche se vi fu chi cercò questo effetto. Si può ricordare il marchese di Pombal, ricostruttore della Lisbona devastata dal terremoto del 1755, che per questa sua opera divenne tanto potente e popolare da far temere per il futuro della dinastia dei Braganza: alla morte di Giuseppe I, suo protettore, fu infatti condannato al ‘soggiorno obbligato’ nelle sue terre. Per inciso, secondo alcuni storici, fu proprio questa catastrofe (100.000 morti) che rallentò fortemente lo slancio coloniale del Portogallo, ma in ciò non si può certamente vedere un crac.

Nel 1783, invece, i Borboni, per ricostruire la Calabria colpita da un terremoto tra i più forti della sua travagliata storia sismica, costituirono un ‘fondo di solidarietà’ dapprima con i beni dei religiosi morti e poi, cercando di approfittare dell’occasione per recuperare appieno il potere regale in quelle lontane terre dominate dai potenti locali, anche di quelli sopravvissuti e dei nobili più irrequieti. Il fondo fu denominato, a causa della sua origine, ‘Cassa Sacra’ ma il tentativo fallì, come spesso succederà anche in seguito quando lo Stato tenterà di stabilire la sua completa supremazia sulle terre del Meridione.

Ai giorni d’oggi è esemplare il caso del terremoto di Kobe in Giappone, nel 1995, il più costoso dell’era moderna, con danni per più di 100 miliardi di dollari, pari al 2,5% del PIL di quel Paese o, se vogliamo un termine di paragone, pari a due volte e mezzo le sue spese militari (nello stesso anno il PIL dell’Italia è stato poco più di 81 miliardi di euro). Alcuni anni prima una grande banca nipponica aveva pubblicato uno studio sulle probabili conseguenze, per l’economia mondiale, di un disastroso terremoto in Giappone. In breve, si ipotizzava una crisi generale simile a quella del 1929 innescata dal ritiro dai mercati finanziari, in primis da quello statunitense, dei fondi giapponesi richiamati in patria per le necessità della ricostruzione. Ebbene, a quattordici anni di distanza da quell’evento abbiamo sì sfiorato una gravissima crisi, ma tutta interna al mondo della finanza e non certo per le ragioni sostenute dalla Tokai Bank nello studio sopra ricordato.

L’esempio di Kobe non basta a cancellare i timori sulle conseguenze che potrebbe avere sull’economia italiana ed europea la ripetizione, oggi, del terremoto che nel 1693 rase al suolo gran parte della Sicilia sud-orientale. Allora Catania aveva 25.000 abitanti ed ebbe 16.000 morti; oggi la conurbazione ne ha circa 400.000 e non ci sono ragioni per ritenere che la qualità dell’edificato sia molto migliore. Si consideri, inoltre, la presenza tra Augusta e Priolo della più grande concentrazione europea d’impianti petrolchimici: lo scenario per un possibile terremoto di magnitudo tra sette e otto è davvero terrificante. C’è da temere che in un caso come questo la Sicilia verrebbe abbandonata a decenni di crisi gravissima e questo sarebbe certamente un crac. È solo un’ipotesi senza fondamenti di ricerca: in questo campo, come in tutta l’economia delle catastrofi, c’è una grande mancanza di strumenti di analisi e previsione (a parte quelli per il sistema assicurativo, che però hanno termini particolari e molto finalizzati).

La probabilità massima che ad un terremoto si accompagni un autentico crac si avrà, forse, nel caso, temuto e probabilmente non molto lontano nel tempo, del ripetersi a San Francisco del terremoto del 1906. Allora la ‘Porta d’oro’ era una ricchissima città di 400.000 abitanti e fu quasi completamente distrutta dalle scosse e, soprattutto, dall’incendio che divampò incontrastato a causa della distruzione della rete idrica.

Secondo uno studio fatto dagli esperti americani, il danno che ci si deve aspettare da un terremoto simile – del quale è in dubbio il ‘quando’ e non il ‘se’ – è di 200 miliardi di dollari, con parecchie migliaia di morti e diverse centinaia di migliaia di senzatetto. Inoltre, solo una piccolissima percentuale di questi danni verrebbe coperta dal sistema assicurativo. Si aggiunga che il territorio più pesantemente colpito sarebbe quello della cosiddetta Silicon Valley con le sue migliaia di industrie elettroniche ed informatiche (Apple, HP, AMD, Cisco, SUN, Varian, INTEL, AMD, ecc.) e con centri d’istruzione e ricerca come Stanford e Berkeley. Ai danni diretti vanno aggiunti, quindi, quelli collaterali causati dal rallentamento o dalla fermata di produzioni hardware e software che costituiscono la base indispensabile per il funzionamento dell’intera economia mondiale.

Sarà questo il primo caso in cui si chiuderà il circuito da crac fisico a crac economico?
È possibile e, secondo i tecnici del Servizio geologico degli Stati Uniti, abbiamo il 60% di probabilità di verificarlo direttamente entro trent’anni.

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