LINK

Esercitiamo la forza del linguaggio anche mentre cerchiamo di contrastarne la forza, prese dentro un legame che nessun atto di censura può sciogliere.
J. Butler, Parole che provocano. Per una politica del performativo, 2010

Cosa diciamo quando diciamo ‘extracomunitario, ‘marocchino’, ‘terrone’, ‘clandestino’, ‘diverso’, ‘minoranza’? Questi sono alcuni esempi di parole il cui uso è andato distanziandosi dal significato letterale per divenire veicolo di una comunicazione discriminante.
Infatti, sebbene il linguaggio sia il ‘link’ per eccellenza, strumento per ‘collegare’, unire e creare relazioni tra le persone, per con-dividere e per comunicare, allo stesso modo, tuttavia, esso può anche diventare strumento per dividere, per distanziare e per escludere.
Un attento processo di normazione, che codifichi e sanzioni un certo uso del linguaggio, dovrebbe sempre riuscire a mantenerne la primaria funzione di interrelazione paritaria, anche quando un sistema autoritario e illiberale lo trasformi in un dispositivo di potere per creare zone di esclusione e de-finizione. Queste considerazioni nascono dalla mia convinzione che la parola sia atto e che il senso, il significato, il tono e il modo in cui viene espressa possano comportare delle conseguenze sul piano giuridico. Conseguenze immediate, nel caso in cui la parola istantaneamente offenda, o conseguenze mediate, nel caso in cui la parola induca a una reazione o provochi un comportamento in chi la riceva o in chi si trovi ad ascoltarla. Faccio un esempio: la parola culattone ha una portata offensiva intrinseca, in quanto epiteto volgare con cui si indica spregiativamente un uomo di orientamento omosessuale. Qualora venga utilizzata per appellare una persona, ha immediatamente un effetto offensivo mentre, nel caso in cui sia utilizzata in un comizio politico, in un’esternazione pubblica, in un’intervista, in televisione o in un blog, ha l’effetto di legittimare il disprezzo nei confronti di una categoria generale di persone cui quel termine può riferirsi e di giustificare, a posteriori, comportamenti discriminatori, verbali o non verbali. Le parole sono creative della realtà. Utilizzare espressioni come ‘maggioranza’ e ‘minoranza’, ‘diverso’, ‘sano’ e ‘malato’, ‘uomo’ e ‘donna’ e declinare il linguaggio esclusivamente al maschile per ruoli di potere (capo, magistrato, politico, capitano) sono esempi di espressioni che determinano la realtà. Se da una parte il linguaggio ‘descrive’, dall’altra il linguaggio pre-scrive e soprattutto ‘per-forma’, ovvero determina e crea. La degenerazione del linguaggio, nella politica italiana degli ultimi decenni, ha contribuito a determinare un sistema disegualitario, in cui si sono derogati alcuni principi fondamentali e alcuni diritti inalienabili. In Italia, infatti, abbiamo assistito alla codificazione di alcune parole, entrate nel linguaggio della politica e poi urlate dagli spalti dei comizi, nei media e in internet, quali ‘terroni’, ‘negri’, ‘froci’ e di altre che hanno assunto precisi connotati xenofobi come ‘clandestini’, ‘extracomunitari’ o ‘marocchini’. Oltre alle parole, scritte e parlate, si aggiunga anche l’imbarbarimento di altre forme di manifestazione del linguaggio, quelle delle immagini e dei video, compulsivamente orientate al consumo e alla produzione di bisogni indotti, alla pornografia, alla strumentalizzazione e alla subordinazione del corpo della donna.
Il linguaggio così diffuso dalla politica e dai media, in Italia, è generalmente un linguaggio maschilista, xenofobo e omofobo. Da queste disarmanti constatazioni, nasce l’esigenza di una normazione (penale) in grado di recuperare un linguaggio egualitario, attraverso la definizione legislativa e la sanzione per quelle parole che, con il loro abuso, possono contribuire a ledere beni giuridici costituzionalmente garantiti. Nel diritto anglossassone – a conferma di come il linguaggio sia allo stesso tempo descrittivo e creativo di realtà – esiste un’espressione, hate speech, per indicare quel linguaggio che produce discriminazione. Il nostro ordinamento manca di una nozione corrispondente e non individua, attraverso il precetto penale, espressioni foriere di odio e discriminazione ammettendo, di fatto, che determinate parole possano rimanere nell’alveo del legittimo, del giustificato e giustificabile. In Italia, infatti, si è fatta strada l’opinione (supportata da alcuni esponenti politici e alcuni intellettuali) che la codificazione di un linguaggio d’odio, e conseguentemente di quelli che sono definiti come hate crimes, costituisca violazione della libertà d’opinione. La questione è stata ricondotta alla risoluzione del conflitto tra diritti fondamentali e il contemperamento di beni giuridici costituzionalmente garantiti: da una parte il diritto alla libertà di opinione, dall’altra il diritto di eguaglianza. All’interno di un ordinamento – com’è il nostro – che riconosce e si fonda sul principio inderogabile e inalienabile di eguaglianza e di non discriminazione (art. 3 della Costituzione), il diritto di esprimere liberamente la propria opinione, come ogni altro diritto individuale, trova un limite invalicabile nel rispetto della pari dignità di ciascuno. Non solo la parola offensiva è capace di ledere un bene giuridico garantito come la dignità personale e l’onore di ogni singolo individuo ma, se connotata di odio discriminatorio, essa offende un bene, quale il principio di eguaglianza, fondante dello stato democratico, che è bene costituzionale e per il quale si ritiene doverosa la procedibilità d’ufficio e l’aggravio di pena. A differenza di quanto è andato affermandosi negli ultimi decenni negli altri Paesi europei, l’Italia è una delle più strenue resistenti a una politica normativa che vada nella direzione di individuare condotte, anche linguistiche, incriminabili in quanto violative del principio di eguaglianza, in particolare, cioè, quelle xenofobe, razziste, sessiste e omofobe. Un esempio, la ‘Decisione Quadro 2008/913/gai’, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale: l’Italia, con l’allora ministro Roberto Castelli, in virtù della presunta violazione della libertà d’opinione, oppose una riserva di esame parlamentare ritardando, in pratica, l’approvazione del provvedimento.
Sostenere che la libertà di pensiero e la libera espressione delle proprie idee abbiano qualche assonanza con la libertà di offendere, ingiuriare e, infine, istigare alla violenza e all’odio razziale, è quanto di più lontano dalle elementari logiche educative della civiltà democratica. Si è forse confusa la libertà di esprimere liberamente il proprio pensiero con la libertà di violare apertamente i diritti fondamentali riconosciuti dalla nostra Costituzione e dalle convenzioni internazionali? Oppure si cerca di celare, dietro il paravento del diritto di libertà d’opinione, l’affermarsi di un (nuovo) sistema autoritario e disegualitario? Un sistema che non riconosca il valore dei diritti fondamentali in egual modo a tutte le persone è, di fatto, un sistema che, fingendosi ‘libertario’, consente la propaganda razzista, xenofoba e omofoba. Una prova di tanto il legislatore l’ha data, di recente, anche nel dibattito parlamentare sull’introduzione dell’aggravante di omofobia, inizialmente proposta come integrativa della cosiddetta ‘legge Mancino’. Dopo un dibattito pluriennale alla Camera, la proposta di legge è naufragata per una supposta questione di costituzionalità. La norma che prevedeva un aggravio di pena per i reati contro la persona – quando questi fossero determinati da ragioni di discriminazione di  genere o di orientamento sessuale – è stata considerata violativa del principio di tassatività e… del principio di eguaglianza! Proprio quel principio con il quale si volevano salvaguardare le categorie di soggetti discriminati. Inoltre, nel dibattito in Commissione Giustizia è emerso l’antico dubbio sulla possibilità che proprio l’introduzione di tale aggravante potesse costituire la codificazione di un reato d’opinione. In altre parole, tornando agli esempi iniziali, pronunciare frasi che contengano la parola ‘culattone’ o altre espressioni a cui si associno richiami alla violenza, all’esclusione, quando non alla vera e propria eliminazione fisica di gay e lesbiche, è considerato nel nostro Paese un esempio di libera espressione del proprio pensiero. Usare un linguaggio violento è in sé condotta violenta, capace di ledere i diritti della persona e, più in generale, può anche tradursi in politiche escludenti e disegualitarie. L’incapacità di discernere, nel dibattito pubblico, tra sanzionabilità del linguaggio d’odio e codificazione di reati d’opinione, misura il segno della perdita di democrazia e di civiltà. Nell’ordinamento italiano è prevista l’ingiuria aggravata, come può essere la minaccia e, in generale, ogni altro reato che sia commesso per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso. Tale aggravante è stata inserita dal d.l. 122 del 1993 convertito nella legge 205/1993 (cosiddetta ‘legge Mancino’), attuativa della legge di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966 (legge 13 ottobre 1975 n. 654).
L’aggravante in parola non trova tuttavia, ad avviso ed esperienza di chi scrive, molte applicazioni pratiche. La lettura di alcune sentenze della Suprema Corte di Cassazione mette in luce la confusione (o la diversità di vedute) che vige in Italia in merito alla possibilità di offendere le persone ‘in ragione di connotati razziali, etnici o religiosi’ (per limitarsi solo a ciò che la cosiddetta ‘legge Mancino’ ha codificato), senza che con ciò si ritenga integrata quell’aggravante che rende il reato suscettibile di sanzione più grave e di procedibilità d’ufficio.
Le resistenze, anche da parte degli stessi operatori del diritto, a inquadrare e riconoscere una simile aggravante vanno ricondotte alla propaganda di ideologie discriminatorie. Con l’accrescersi del fenomeno immigratorio, nel nostro Paese si sono concretizzate con sempre maggiore frequenza quelle condotte di linguaggio ingiurioso e discriminatorio che dovevano essere perseguite penalmente e che invece sono rimaste impunite. Hanno così assunto una semantica dispregiativa le parole ‘marocchino’ (usato all’inizio degli anni ’90 per qualsiasi straniero di colore, indifferentemente dalla provenienza geografica) o ‘albanese’ e si è coniata l’espressione ‘vu cumprà’, qualifica denigratoria dello straniero venditore ambulante. Dagli anni ’90, la politica dominante ha legislativamente blindato l’ingresso agli stranieri extracomunitari con una retorica, non solo leghista, che ha permesso di tacciare come diverso, nemico e inferiore l’extracomunitario, parola che sostantivizza in senso dispregiativo la persona, portando con sé, pregiudizialmente, il concetto di clandestinità, a sua volta ormai semanticamente equivalente a criminalità. Tant’è che si è arrivati a portare queste equivalenze dal piano semantico al piano giuridico, codificando (altro che hate speech) il reato di clandestinità (art. 10 bis del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, aggiunto dall’art. 1, c. 16°, lett. a), della legge 15/07/2009, n. 94). Nella deriva del linguaggio a cui oggi assistiamo, il Legislatore dovrebbe chiarire e codificare le espressioni considerate violative dei diritti umani fondamentali e pertanto censurabili e sanzionabili e dovrebbe segnare, in modo altrettanto deciso, il confine tra libertà d’opinione e crimine.
Compito del diritto dovrebbe, invece, essere quello di porre il limite invalicabile nei diritti fondamentali riconosciuti a tutti gli individui senza distinzioni, al di sotto del quale nessuna deroga dovrebbe essere consentita.
Pertanto, una norma che rafforzi le tutele dei diritti anche attraverso la codificazione dei linguaggi razzisti, xenofobi, maschilisti, omofobi, dovrebbe ritenersi indispensabile per delimitare i confini del potere performativo delle parole d’odio e recuperare al linguaggio la funzione di comunicazione e relazione tra le persone.

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