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Il quantum entanglement (correlazione quantica) è il più singolare fenomeno del mondo naturale e il più grande enigma della fisica. Nel 1935 Albert Einstein, insieme a due professori associati, Boris Podolsky e Nathan Rosen, scrisse un articolo che ora è da tutti conosciuto con l’acronimo delle loro iniziali: The EPR Paper. Einstein aveva dedotto che se la teoria quanto-meccanica del mondo è vera, allora ne dovrebbe conseguire un risultato paradossale, ossia la relazione fra particelle che possono addirittura non essersi mai viste fra di loro: qualunque cosa accade ad una di esse deve accadere anche all’altra. E non ha importanza quanto lontano possano trovarsi, se dall’altra parte di un tavolo oppure dell’universo. Einstein, che si era opposto alla teoria quantistica a causa del suo forte uso delle probabilità e della sua fiducia nei principi di incertezza e caso, è conosciuto da tutti per aver detto: «Non potrò mai credere che Dio giochi a dadi con l’Universo». Egli semplicemente si rifiutava di credere che il caso e la probabilità possano giocare un ruolo in un contesto fisico.
Sembrava che Einstein dicesse: se tu fossi Dio, conosceresti certamente tutto con precisione. Così, quando fu in grado di risolvere la famosa equazione di Schrödinger e di trovare delle soluzioni per sistemi di particelle che mostravano di essere state in relazione fra di loro, sentì di avere un’arma contro quella teoria quantistica che non amava! Niels Bohr, Werner Heisenberg, Paul Dirac e altri pionieri della teoria quantistica rimasero sbalorditi dal suo attacco e non seppero cosa fare. Essi dovevano certamente ammettere che c’era qualcosa di sbagliato in una teoria che ipotizzava un comportamento così strano: come poteva una particella qui avere effetto su una particella – dove ‘là’ poteva essere un luogo davvero remoto – senza mandarle alcun segnale? Il problema era che l’entanglement è una risposta istantanea. Quando una particella è misurata, mostrando un certo parametro, la sua gemella correlata – a qualsiasi distanza sia – mostrerà la stessa caratteristica (o il suo opposto, a seconda del tipo di fenomeno studiato) – senza che ci sia il tempo che un segnale passi dall’una all’altra. Davvero bizzarro! Così, per almeno trent’anni, nulla si mosse dopo quel famoso articolo del 1935 e la teoria quantistica si sviluppò anche senza l’approvazione di Einstein. Bisognerebbe comunque sottolineare che lo stesso Einstein fu uno dei primi pionieri di tale teoria – il suo scritto del 1905 sull’effetto fotoelettrico è infatti una chiave per la scoperta della quantizzazione dell’energia – e che a lui non piaceva soltanto ciò a cui essa portava.
Le sue previsioni, infatti, si rivelarono estremamente precise in numerose situazioni fisiche nel mondo dell’infinitamente piccolo: atomi, elettroni, protoni, e così via.
Fu a metà degli anni ’60 che l’irlandese John Bell, un fisico teorico del CERN, il laboratorio internazionale di particelle vicino a Ginevra, in Svizzera, scrisse una serie di articoli che illustravano un teorema che presentava dei passi avanti. Il teorema di Bell dimostrava che Einstein – sebbene pensasse di sbagliare a proposito dell’‘eccentrica’ idea di entanglement – era effettivamente nel giusto, a dispetto di se stesso! Ciò che John Bell dimostrava era essenzialmente che il ‘paradosso’ di Einstein-Podolsky-Rosen non era affatto un paradosso: le particelle, in determinate condizioni, possono davvero essere in correlazione fra loro. Anziché mettere in discussione la validità della teoria quantistica usando questa ‘pazza’ idea, Bell dimostrò invece che la ‘pazza’ idea di entanglement è reale. Passarono alcuni anni quando alla Boston University (dove io lavoro) un fisico di nome Abner Shimony, che aveva conseguito dei dottorati sia in fisica (alla Princeton University, con il premio Nobel Eugene Wigner) sia in filosofia (alla Yale University) e che stava lavorando in entrambi i campi disciplinari, si imbatté nell’oscuro, e per lo più ignorato, articolo di Bell. Poiché era preparato sia in fisica che in filosofia, gli fu possibile cogliere in quel testo qualcosa che gli altri non erano stati in grado di vedere. Shimony intravvide nel teorema di Bell la strada per progettare un test per il bizzarro e supposto fenomeno dell’entanglement e in ciò si fece aiutare da un laureando, Michael Horne.
Mentre i due stavano lavorando duramente a questo progetto, ricevettero la notizia che una terza persona, John Clauser, della Columbia University di New York, si stava dedicando allo stesso problema. Piuttosto che competere, decisero collaborare e lavorarono tutti insieme per mettere a punto un esperimento che verificasse se è davvero possibile creare in laboratorio particelle correlate.
Nel 1972, John Clauser e il suo dottorando Stuart Freedam all’Università della California, a Berkeley, lavorando per conto loro, e Abner Shimony e Michael Horne dall’altra parte degli Stati Uniti, a Boston, fecero il primo esperimento sui fotoni correlati (quanti di luce). I quattro scienziati furono così in grado di dimostrare che la luce polarizzata può essere entangled. Essi dimostrarono che un fotone, quando misurato (e noi diciamo che la sua funzione di probabilità, o la sua funzione d’onda, è allora ‘collassata’ – portando a un determinato valore della sua direzione di polarizzazione) indurrà istantaneamente il suo gemello correlato, misurato in un luogo distante del laboratorio, a mostrare la stessa direzione di polarizzazione. Dieci anni più tardi, il fisico francese Alain Aspect, che lavorava al laboratorio fotonico dell’Università di Parigi, a Orsay, fu in grado di spingere questa scienza molto oltre. Egli riuscì a chiudere ogni ‘via d’uscita’ nella prova sperimentale di entanglement usando nel suo laboratorio dei meccanismi di switching estremamente veloci per mostrare che non era in alcun modo possibile che uno dei fotoni correlati inviasse un segnale all’altro, dicendogli ‘cosa fare’, ossia che direzione di polarizzazione scegliere. Un siffatto segnale avrebbe dovuto viaggiare alla velocità della luce e l’altamente sofisticato apparato di switching di Aspect funzionava – su una distanza in laboratorio di 13 metri – a una velocità maggiore di quella che avrebbe dovuto avere questo ipotetico segnale per attraversare quei 13 metri.
Negli anni ’90 del secolo scorso, Nicolas Gisin fu in grado di dimostrare l’entanglement fra due particelle separate in un cavo a fibre ottiche sotto il lago di Ginevra fino ad una distanza di 16 chilometri; dimostrò anche come l’entanglement può essere usato per teletrasportare lo stato quantico di una particella.
Ricerche simili furono condotte anche all’Università di Vienna dal pioniere del teletrasporto Anton Zeilinger che con Michael Horne e Daniel Goldberger dimostrò che anche tre particelle possono essere tra loro correlate.
La ricerca sull’entanglement continua mantenendo la promessa di codici inviolabili e di computer quantistici nel nostro futuro.

[Traduzione di Norma Zamparo]

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