MARGINE

Lei camminava, camminava sempre. Sotto il solleone, con la bora che ululava, noncurante della pioggia spietata. Camminava e spingeva: lungo via Carducci, per corso Italia, percorrendo via Mazzini su e giù, guardando le vetrine, fermandosi ai semafori. Camminava, spingeva e guardava. Rosa nel nome e nell’aspetto, con il suo ombrellino rosa nei giorni di maltempo, con la borsetta verniciata, con il piumino rosa e i dopo-sci che portava fino a metà aprile. Camminava, il viso un’alba innocente, i capelli corti pieni di farfalle fucsia, il corpo pesante, ma con una sua triste armonia.
A vederla da lontano, con l’inseparabile passeggino rosa, poteva essere scambiata per una bambina a spasso con la sua bambola preferita e non si sbagliava di molto.
Per proteggersi dal mondo Rosa vive su una nuvoletta tutta sua: donna nel corpo, cherubina nel cuore. Con il sorriso innocente stira le smorfie dei passanti, gli insulti dei ragazzi, ma se per sbaglio sfiori il suo passeggino, si mette a strillare come una sirena. Se poi scorge in lontananza quelli, viene devastata da un terremoto interno.
Andando a lavoro la vedevo ogni mattina. In attesa alla fermata dell’autobus in piazza Goldoni, la scrutavo nel tentativo di capire, temendo già di sapere. Non era difficile da intuire. Quel passeggino vuoto che portava in giro era un manifesto di dolore. Sostava a lungo davanti ai negozi di giocattoli, ma cosa vedeva dietro a quelle vetrine che gli altri non riuscivano a scorgere?
Qualche negoziante impietosito le regalava una bambola, ma quel gesto di generosità provocava in lei più spavento che gioia. In tutta fretta accomodava il regalo nel passeggino, abbassandone il tettuccio, e si metteva a correre. Poche ore dopo il passeggino tornava vuoto.
Una mattina mi ero messa una maglia rosa; in mano tenevo una Barbie acquistata per la mia nipotina.
Pur portando degli occhiali spessi e camminando dall’altro lato della strada, Rosa mi vide, mi bollò come una della tribù, e corse al mio fianco.
«Quanti mesi ha?» la sua voce infantile, sopraffatta dall’ansia, uscì a scatti.
«Chi?».
Rosa mi scrutò attentamente.
«Dice d’aver caldo. Non senti come si lamenta? Non la dovresti portare in giro così!».
Compresi la fonte della sua crescente agitazione, ma non seppi come reagire.
«Vieni, seguimi, non stare lì impalata! Ti faccio vedere io come si fa». Cominciò a strattonarmi e, a quel punto, un po’ per paura della sua reazione, vista anche la mole non indifferente, le chiesi se voleva la bambola.
«Non la posso tenere!» urlò disperata. «Non sono brava, non lo sai che non sono brava? Cattiva! Sono cattiva!». Si mise a piangere e a pizzicarsi le braccia.
«Chi te l’ha detto?». Ingenuamente pensavo che sfogarsi l’avrebbe aiutata a sconfiggere i demoni interni.
«Loro».
«Loro chi?».
«Quelli che portano via i bambini».
«Ma chi porta via i bambini?».
Mi prese per il bavero della giacca e cominciò a scuotermi. «Cretina che non sei altro! Li portano sempre via! Il perché non lo so, so solo che lo fanno sempre, lo fanno sempre, allora io vado in giro con la carrozzina vuota!».
«Perché?» dissi, la curiosità soppiantò lo spavento.
«Per ingannarli. Loro pensano di essere furbi, ma anch’io sono furba. Ricordati di andare in giro con la carrozzina sempre vuota. Ora corri subito a casa e nascondila in un posto sicuro. Fai presto altrimenti ti legheranno a un letto e te la strapperanno dalla pancia mentre dormi. Hai capito?».
Rosa soffriva ma sapeva leggere la paura. Il mio stupore non le sfuggì ed ebbe l’effetto di un calmante. Intuì di dover cambiare strategia perché ero una donna ingenua che non aveva capito l’inevitabile, terribile destino di quelle in rosa.
Ma prima di incominciare la strada della persuasione, con voce mesta, improvvisamente adulta, mi sussurrò: «Perché? Mi sai spiegare perché a noi matti non è concesso amare?».

Questo testo riprende un racconto pubblicato nel volume Se tutte le donne di Laila Wadia (Barbera Editore, Siena 2012).

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