CAOS

Affrontare il tema del caos in economia e finanza richiede qualche cautela terminologica. Da un lato gli economisti distinguono fra caos nell’economia reale e caos dei mercati finanziari; dall’altro una corrente di pensiero eterodossa propone di estendere al campo economico-finanziario metodologie e concetti mutuati dalle teorie del caos deterministico proprie di altri settori scientifici. Ne consegue il rischio di dar vita ad una babele di linguaggi, fonte di fraintendimenti e incomprensioni che poco giovano alla capacità di comprendere il funzionamento del sistema economico e di ricorrere a misure efficaci di politica economica, incluse quelle relative alla appropriata regolamentazione dei mercati e degli intermediari finanziari.

Nel linguaggio comune il termine ‘caos’ è utilizzato per indicare una situazione di grande confusione e disordine, nella quale non si riesce a descrivere con modelli (deterministici o anche probabilistici) affidabili l’evoluzione di un fenomeno. Sembra, al contrario, che essa sfugga ad ogni previsione.
Nelle scienze sociali il caos è associato a situazioni di tumulti, rivolte, sommosse, guerre civili…, nelle quali viene meno ogni possibile riferimento a istituzioni in grado di rimettere ordine. È chiaro che il disordine si propaga rapidamente dal campo sociale a quello economico. In altri scenari il disordine nasce invece proprio nella sfera economico-finanziaria. Si verificano improvvisi crolli nei prezzi di attività reali o finanziarie significative; le istituzioni preposte alla regolazione e al controllo, governi inclusi, sono incapaci di ripristinare una situazione ordinata; si succedono fallimenti a catena di imprese, difficoltà nei bilanci delle banche, panico fra i risparmiatori e corsa agli sportelli delle banche per salvaguardare i propri risparmi; calano bruscamente investimenti e consumi, crolla quindi la domanda interna e schizza in alto la disoccupazione.

A questo punto, soprattutto se il governo e più in generale il ceto politico non hanno autorevolezza, il disordine può propagarsi al sociale e dar vita appunto a tumulti, sommosse o in ogni caso a repentine e inattese variazioni nella composizione delle rappresentanze parlamentari in caso siano indette, a causa della crisi o semplicemente a scadenza naturale, nuove elezioni. È possibile anche uno scenario in cui l’esigenza di ristabilire un ordine purchessia genera scenari di governi forti con parziale attenuazione, esplicita o implicita, delle tradizionali libertà democratiche o addirittura l’emergere di una dittatura.

Secondo il comune buon senso il caos è dunque percepito come un fenomeno fortemente negativo, una situazione patologica ed eccezionale determinata da errori e inadeguatezze dei governanti o più in generale dei ceti dirigenti, il cui compito primario sarebbe proprio quello di evitare il verificarsi di questa ‘patologia’, preservando l’ordine delle cose.

Solo di recente si è affacciato alla ribalta, spinto da una riflessione scientifica eterodossa, un diverso atteggiamento. Esso considera gli scenari caotici come situazioni che si possono verificare in modo del tutto fisiologico quando l’evoluzione del sistema che le genera sia descritto da leggi non lineari; più in particolare, ciò si verifica almeno per certi valori del (dei) parametro(-i) che interviene (intervengono) in tale descrizione. Ciò può verificarsi anche quando l’evoluzione del sistema sia deterministica. In tali modelli il sistema (pur deterministico) si comporta in maniera a prima vista del tutto casuale; inoltre, questo comportamento dipende in maniera sensibile dalle condizioni iniziali, nel senso che trascurabili variazioni di tali condizioni implicano variazioni significative delle traiettorie caotiche del sistema. (Tale risultato è stato chiamato nel 1963 ‘effetto farfalla’, dallo scienziato meteorologo Edward Lorenz, pioniere delle teorie del caos deterministico e scopritore degli ‘attrattori strani’). Ne consegue che, data l’impossibilità di misurare con precisione assoluta lo stato iniziale del sistema, non si può neppure prevederne l’andamento futuro (tranne che su orizzonti molto brevi), pur conoscendo la legge deterministica che lo governa.

Le scoperte degli studiosi del caos deterministico nelle scienze naturali gettarono le premesse per l’approccio alternativo alla finanza noto come ‘teoria caotica della finanza’. Sviluppatasi a partire dalla seconda metà del secolo XX, essa rifiuta l’interpretazione dominante dei mercati, secondo cui questi sarebbero caratterizzati da ordinata e (quasi) perfetta razionalità; i suoi sostenitori si propongono di estendere la teoria del caos adeguandola alle caratteristiche dei sistemi economici e in particolare alla realtà della moderna finanza.

Ricordiamo che la teoria prevalente, anzi dominante, sul funzionamento dei mercati finanziari è nota come acronimo di Efficient Market Hypothesis (EMH). Elaborata da Eugene F. Fama, tenendo conto dei modelli di comportamento razionale dei singoli investitori e del conseguente modello di equilibrio di mercato, essa postula che il prezzo Pt di un titolo all’epoca t rifletta tutte le informazioni pubbliche disponibili in t. Tali informazioni comprendono sia la sequenza di tutti i prezzi fino all’epoca t, che altre notizie rilevanti e pubblicamente disponibili che possano influenzarli, in particolare le opinioni degli analisti sui cosiddetti fondamentali (indici economico-finanziari che sintetizzano la situazione corrente e le prospettive) dei singoli titoli e del mercato nel suo complesso. Se vale tale ipotesi, si dice che gli investitori reagiscono in modo lineare all’informazione. Le variazioni di prezzo sono dunque provocate solo dall’arrivo di nuove informazioni inattese. Un mondo che funziona in questo modo è per certi aspetti un mondo ideale. Accetta la rischiosità, ma la organizza, la gestisce e la distribuisce in modo efficiente, tenendo conto dell’avversione al rischio che, sia pure con diverse gradazioni fra i singoli agenti economici a seconda del carattere e delle rispettive dotazioni di ricchezza disponibile, caratterizza una collettività. Nonostante il suo notevole successo, anzi il suo quasi completo predominio culturale nell’arco temporale 1950-2000, questa teoria ha dovuto prendere atto di alcuni punti deboli. Infatti, essa è risultata incompatibile con evidenze empiriche piuttosto robuste. Da un lato, l’osservazione di una larga messe di dati ha evidenziato che le distribuzioni del rendimento logaritmico standardizzato (logaritmo del rapporto fra valore di fine periodo e valore di inizio periodo di un asset), pur restando unimodali e talvolta anche (almeno approssimativamente) simmetriche, hanno evidenziato code (probabilità dei valori estremi) sensibilmente più grosse di quelle previste, coerentemente con la teoria EMH, da una distribuzione normale.

D’altro canto, esperimenti effettuati dai cosiddetti fautori della finanza comportamentale (primo fra tutti il premio Nobel Daniel Kahneman) hanno messo in luce evidenti tracce di irrazionalità nelle scelte di portafoglio di potenziali investitori (contrariamente all’ipotesi di razionalità individuale), mentre altre analisi hanno rilevato la presenza di aspetti di imitazione e di comportamenti gregari altrettanto distruttive per l’ipotesi di razionalità del mercato.

A sostegno della verosimiglianza di modelli non lineari nel comportamento del mercato, vi è l’ipotesi che larga parte degli agenti che vi operano siano riluttanti a incorporare immediatamente le informazioni nel prezzo e ad agire di conseguenza. Al contrario, sono portati a diffidare delle nuove informazioni, specie quando contrastano con precedenti aspettative consolidate. È dunque verosimile che attendano di veder confermate notizie innovative o sorprendenti e solo dopo averne constatato l’attendibilità, anche sulla base della loro accettazione da parte di altri operatori ritenuti più autorevoli e competenti, siano disposti ad incorporarle nei loro comportamenti. Ragionamenti di questo tipo indussero Benoît Mandelbrot ad applicare all’analisi delle serie temporali dei rendimenti di mercato dei titoli una tecnica elaborata dall’ingegnere idraulico Harold E. Hurst nell’indagine sulle serie temporali di alcuni fenomeni naturali (in particolare la portata delle piene del Nilo). Ciò lo portò a introdurre nell’analisi delle serie storiche finanziarie i moti browniani frazionari (MBF) e a coniare il termine ‘frattali’ per descrivere i fenomeni ad essi associati.

L’analisi dei dati raccolti indusse Mandelbrot a rigettare l’ipotesi di indipendenza degli incrementi dei prezzi e quindi la EMH, propugnando invece l’idea di una dipendenza di lungo periodo, in grado fra l’altro di spiegare anche il fenomeno delle code grosse. Mandelbrot è stato studioso di grande reputazione e autorevolezza nel mondo scientifico; ciò nonostante fra gli studiosi, e in particolare nel mondo accademico, la sua posizione è rimasta del tutto minoritaria.

Il discorso è molto diverso se consideriamo l’accoglienza riservata alle idee di Mandelbrot dagli esponenti della comunità finanziaria. Rilevanti, fra questi, il ruolo di Edgar E. Peters, importante manager finanziario e autore di alcuni best seller dai titoli molto espressivi, come Chaos and order in the capital markets (1991) o Fractal Market Analysis (1994), e, sia pure con minore autorevolezza, anche le pretese di sedicenti specialisti della finanza speculativa come J. Doyne Farmer, Norman Packard e James Mc Gill, fondatori negli anni 1990 della Prediction Company (nome eloquente), di saper prevedere, grazie all’applicazione della teoria del caos e dei MBF, almeno in alcune situazioni particolari, l’andamento del mercato realizzando consistenti extra profitti. Peraltro, anche i sostenitori dell’applicabilità della teoria del caos riconoscono che tali previsioni sono relativamente affidabili e solo nel breve periodo.

Per concludere questa carrellata su alcuni dei più significativi protagonisti del dibattito sul funzionamento del mercato, segnaliamo ancora la Coherent Market Hypothesis (CMH) di Tonis Vaga (1991). Si tratta di un modello lineare non deterministico nel quale le distribuzioni di probabilità cambiano per modifiche di due variabili esplicative: i giudizi sui fondamentali dei singoli titoli o dell’economia nel suo complesso e la propensione della comunità degli investitori a muoversi in maniera individualistica o, al contrario, di esibire comportamenti gregari e/o imitativi. Combinazioni diverse delle due variabili generano quattro distinte fasi o situazioni di mercato definite rispettivamente:

  • passeggiate aleatorie (rispecchiante il paradigma EMH);
  • mercati in transizione (corrispondente al modello FBM di Mandelbrot, con crescente attenzione ai comportamenti degli altri operatori);
  • mercati caotici (con comportamenti fortemente imitativi ma fondamentali in oscillazione senza un orientamento preciso al rialzo o al ribasso);
  • mercati coerenti (caratterizzati da fondamentali ben definiti in senso positivo o negativo e comportamenti imitativi).

Questo modello giustifica comportamenti tipici di ciascuna delle teorie esaminate: prevedibilità con dipendenza di lungo periodo, imprevedibilità da caos, imprevedibilità da efficienza di mercato. Extra profitti conseguirebbero da decisioni assunte sulla base di una tempestiva lettura della situazione esistente.

Nel dibattito sulla prevedibilità della crisi/caos innescata nel 2007 dalle problematiche dei subprime negli Stati Uniti – poi propagatesi a partire dal 2010 in Europa e in particolare in alcuni Paesi dell’area euro nella forma di una crisi gemella dei crediti sovrani e delle rispettive banche di rilevanza sistemica – è doveroso citare Raghuram Rajan, all’epoca capo economista del Fondo Monetario Internazionale, ma in precedenza docente di finanza all’Università di Chicago e in seguito governatore della Banca Centrale dell’India. Questi fu uno dei pochissimi esponenti di un certo rilievo del settore accademico-finanziario che segnalò tempestivamente la possibilità di un tale evento. Va sottolineato che, almeno implicitamente, il linguaggio adoperato da Rajan per giustificare l’allarme è collegabile alla teoria del caos. Leggiamo infatti dall’abstract del suo ormai famoso intervento: «Hanno preso piede intermediari la cui dimensione e appetito per il rischio sono rilevanti. Tali intermediari sono verosimilmente esposti a rischi di una probabilità apparentemente bassa ma che può diventare rilevante a causa dei loro stessi comportamenti congiunti (descrizione implicita di un sistema dinamico non lineare). Ne consegue la possibilità che le economie sviluppate siano esposte molto più che in passato alle turbolenze (uragani nel mondo reale) indotte da cause propagate dal settore finanziario (battito d’ali del fallimento di una banca d’affari)».

In conclusione, siamo ancora ben lontani da una convergenza fra sostenitori di diverse teorie o fra studiosi e operatori economici. Probabilmente gli esperti utilizzano modelli di comportamenti poco realistici e danno troppa fiducia alla capacità degli esseri umani di applicare comportamenti di quasi perfetta razionalità individuale e collettiva quando sono in ballo decisioni economico-finanziarie. Dall’altro lato, l’imitazione di modelli quantitativi derivati dalle scienze naturali non tiene conto della complessità derivante dal potere dei governi e delle agenzie/istituzioni di regolazione nazionali e internazionali di intervenire quando la situazione richiede correzioni. Allo scetticismo sulla razionalità degli individui e dei mercati dovrebbe dunque accompagnarsi altrettanta cautela nell’accettare il paradigma di razionalità dei decisori politici e degli stessi elettori nella scelta dei loro rappresentanti. Appare dunque difficile riuscire a proporre modelli soddisfacenti di comportamenti caotici influenzati dall’interazione di una tale congerie di componenti irrazionali.

multiverso

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