DUE

Andrea Lucatello intervista Nicla Vassallo

Lucatello. Si pensa a due e si apre il mondo. Il tutto è sempre qualcosa di diverso e di più rispetto alla somma delle parti, e questo vale a partire da due, la forma minima che apre alla molteplicità. Competizione e cooperazione hanno da sempre accompagnato l’evoluzione dell’umanità. Da cosa dipende se a prevalere è una o l’altra?

Vassallo. Benché creda fermamente nel dialogo, inteso soprattutto in senso socratico, ritengo falsa la comune convinzione che, solo nel momento in cui si pensi a due o in due o per due, il mondo si spalanchi, insieme alla propria mente. Si deve e può pensare in solitudine, con fatica, perché rimangono impegnativi e scomodi sia l’isolamento, sia il pensare. E poi, dopo aver praticato il pensiero ‘solitario’, con profondità, senza concedere a se stessi attenuanti, ci si riesce ad aprire al dialogo, dialogo concepibile, credibile, verosimile con un altro-da-sé che ha nutrito, al tuo pari, la fatica di cui dicevo. Invece, spesso accade di incontrare qualcuno per caso e, proprio per evitare di pensare, ci si mette in coppia, o, anzi, ci si ‘accoppia’ con una sorta di bizzarro interesse, forse narcisistico, in ogni caso egoistico, dettato da una qualche convenienza. L’esistenza non sta nella casualità, bensì nella consapevolezza, nella disposizione alla condivisione, i cui aspetti e risvolti futuri non risultano conoscibili, ma debbono rimanere prevedibili con qualche buon grado di probabilità. Sorrido e, al contempo, inorridisco di fronte a chi afferma con tono positivo: «Con lui/lei mi sono gettato/a nel vuoto». È il vuoto che si ha dentro – disperato, spesso inconscio – che conduce a ‘gettarsi nel vuoto’, senza aver faticato prima, senza aver pensato. Un vuoto in cui dominano gli atti violenti, magari camuffati da azioni soft, non la bella competizione e la bella cooperazione che sorgono, invece, nell’incontro tra due sé, capaci di donare all’altro i propri pensieri. Si compete bene quando ci si aiuta alla pari e alla pari ci si misura con l’altro; altrimenti la competizione è bestiale, anche se non ce ne accorgiamo. Del resto, si coopera bene se il pensare solitario ci ha liberato dai tanti maternalismi e paternalismi che, invece, di frequente infettano la nostra mente e il nostro corpo, con un celato ‘razzismo’.

Lucatello. L’immedesimazione nell’altro che soffre è alla base di quel processo di emancipazione che a partire dal XIX secolo, anche grazie ai grandi romanzi, ha portato al riconoscimento di tanti diritti individuali, messi comunque a dura prova dalle atrocità del secolo successivo. Oggi, nella società dell’ipermedialità, dove tutto è mostrato e tutto è stato visto, dove la spettacolarizzazione del dolore, della sofferenza e della morte ci ha come immunizzato, niente fa più impressione. Lasciare affondare un barcone con delle persone disperate non solo è tollerato ma è diventato giusto. È più possibile recuperare quell’empatia e quell’immedesimazione che ci restituiscano il senso di una umanità?

Vassallo. Come si fa a immedesimarsi in un altro che soffre? E questa sofferenza è qualcosa che noi proiettiamo su altri, ovvero una nostra sofferenza, o la sofferenza di altri? I diritti umani e civili non devono venire riconosciuti a coloro che li meritano in ragione di una qualsivoglia loro sofferenza, ma in base al fatto che ogni essere umano, in quanto tale, merita gli stessi diritti, oltre che gli stessi doveri. Il problema è: chi è un essere umano e chi no? A quale essere attribuire umanità? È giusto attribuirla a tutti coloro che sono sessisti e omofobici? È giusto comprendere («È la loro cultura», «Sono i loro ormoni») chi ordina di infibulare o chi violenta o chi uccide le donne? È giusto scusare chi non pensa, e non pensa ai tanti problemi che tutte le lesbiche e i gay nel mondo affrontano quotidianamente? Lo sguardo di commiserazione sugli altri, che soffrano o non soffrano, mi pare frutto di un atroce disprezzo, privo di una consapevolezza che sia tale. Questo nei rapporti a due, come in quelli tra noi e lo ‘straniero’. Chi non pensa cerca lo ‘straniero’ al di fuori di sé, e non sa che, prima, lo ‘straniero’ risiede in sé, e che per scoprirlo occorre conoscersi, altrimenti si vivono intere esistenze da ‘stranieri a se stessi’. I social network hanno attestato e veicolato, e proseguono a farlo, ogni difetto, ogni deficit del non pensare. Tutto viene mostrato in modo plateale, per brama di fama e per sopperire alle proprie frustrazioni nell’esistenza reale, drogandosi dei propri ‘io’ virtuali. Con chi ci si immedesima alla fin fine? Anche di fronte ai barconi, facile, troppo, dire: «Bene, tutti qui da noi». Senza capire le tante storie di chi ha scelto i barconi, e senza mai poterle capire. E, proprio in virtù di ciò, senza tracciare alcuna differenza: tra perseguitati e arrivisti; tra coloro che ricercano qui, con consapevolezza, diritti civili e umani, e coloro che cercano tutt’altro; tra coloro che rispettano le leggi e coloro che, sebbene nel piccolo, rimangono evasori fiscali, esportando pure denaro; tra coloro che praticano il fanatismo religioso e coloro che professano l’agnosticismo o l’ateismo; tra coloro che rifiutano la parità fra donne e uomini e coloro che la considerano. Quando non si tracciano differenze sul piano teorico, è difficile prevedere poi le conseguenze sul piano delle azioni. La cultura cosiddetta ‘occidentale’ ci ha insegnato molto: proviamo a rispettare questi valori e a farli rispettare; non ovunque, però: la cultura illuministica non si può esportare. Ed evitiamo di sposare con ignoranza cause, così, per moda.

Lucatello. Il linguaggio, attraverso il quale conosciamo il mondo e l’altro da noi, è alla base di ogni relazione, dialogo e confronto. Spesso, tuttavia, da strumento di comunicazione il linguaggio si trasforma, diventa aggressivo, violento e razzista. Diventa un dispositivo – potremmo definirlo ‘invisibile’ – che performa la realtà fino a farcela percepire come inevitabile o addirittura tollerabile. Cosa possiamo fare al riguardo?

Vassallo. Il linguaggio parlato, quello che l’‘uomo della strada’ impiega, corrisponde spesso, da un punto di vista filosofico, a un non saper parlare, né pensare, a una ‘mancanza di pensare’, perché il pensare si situa alla radice del saper parlare. Ovvero, a una mancanza di sé, a un’assenza di umanità. Preferisco, tuttavia, il linguaggio con cui palesemente, con la voce, comunico l’aggressione ad uno con cui ti insulto con falsa dolcezza, così tu non capisci, a un linguaggio ipocrita attraverso il quale io ti uso e tu non capisci che ti sto usando, e con cui affermo «Ti amo: non posso vivere senza di te», pur sapendo di mentire o, peggio ancora, mentendo senza saperlo. Oppure, lo scenario è questo: «Ti amo: non posso vivere senza di te», ma chi proferisce la frase poco prima ha agito con la forza, si è espresso con un linguaggio corporeo violento, uno strattone, uno schiaffo; e il seguito, di cui tutti sanno ma che molti continuano a negare, è: «Non è accaduto nulla di grave, noi ci amiamo». Per di più, quando all’interno di una coppia eterosessuale si impiega un linguaggio sessista, colei (a volte colui) che subisce oltraggi semantici o corporei trova difficile rifugiarsi in una sorta di spazio protetto in cui poter essere compresi; e lo stesso vale per chi, omosessuale, subisce insulti semantici o corporei: a chi parlarne per ricevere risposte non di circostanza o, peggio ancora, di disprezzo? Differente, invece, rimane il caso del linguaggio razzista che, si badi bene, non viene impiegato, nonostante i troppi e beceri luoghi comuni, unicamente contro i cosiddetti individui di ‘colore’, perché non solo questi, a loro volta, impiegano un linguaggio ‘razzista’ nei confronti dei ‘bianchi’, ma anche perché il razzismo è ‘multicolore’, e non riguarda soltanto le ‘razze’. La differenza sta nel fatto che, a fronte di un insulto razzista, chi ne è soggetto trova conforto nella propria comunità, nella propria famiglia. Però, non dimentichiamolo, con il linguaggio ci si può riferire a una qualche realtà purché quella realtà esista. Altrimenti, si parla a vanvera. Il linguaggio non crea la realtà. La deforma, ma a patto che noi la si voglia deformare, a patto che noi non si voglia fare i conti con essa.

Lucatello. Spesso la competizione degenera in violenza: nell’uno non c’è posto per il due, se non per escluderlo o per farlo dipendere. Se nel nostro immaginario, alcuni fenomeni, come ad esempio l’incesto, sono generalmente considerati dei tabù, possiamo pensare che in futuro anche la violenza, nelle sue tante manifestazioni, possa diventarlo?

Vassallo. Ripeto: la competizione può essere positiva. Quando però si dice «Non è accaduto nulla di grave, noi ci amiamo» a fronte di atti di violenza psicologica e/o fisica, ritengo che, al di là delle spiegazioni psicoanalitiche sui traumi degli individui coinvolti in questi rapporti sadomaso, sussista una competizione negativa, del tipo «Ti sfido: vediamo se mi amerai fino al limite!», limite che non è quello dell’amore sublime, bensì quello della morte di uno o di entrambi gli appartenenti alla coppia. Rimango comunque colpita ogni qual volta si cerca una giustificazione a tutto ciò: spiegare, ovvero descrivere, è una cosa; giustificare, ovvero presentare buone ragioni è ben altra. E non credo che la violenza, specie quella che si dà all’interno delle coppie eterosessuali, possa trasformarsi in futuro in un tabù, a meno che l’eterosessualità stessa non divenga un tabù, o che gli eterosessuali rinuncino alle identità e ai ruoli di maschio e di femmina, con il primo per lo più ‘attivo’ e la seconda per lo più ‘passiva’. Del resto, l’eterosessualità, a differenza dell’omosessualità, è stata mai pesantemente condannata? Ogni società e ogni periodo storico ha avuto e ha i suoi tabù. Leggere James Frazer è sempre illuminante. I tabù, però, alla fin fine, consistono in vere e proprie proibizioni. E poi c’è sempre lo stupido di turno che non comprende cosa siano umanità e parità, cosicché non capisce la violenza che esercita o che su di sé viene esercitata. Violenza bestiale. Posso solo sperare che emerga qualche buona ragione contro la violenza e la stupidità.

Lucatello. A volte, nella relazione con l’altro, un comportamento non violento rischia di non ottenere dei risultati e spesso comporta una rinuncia, un soffocamento di tutte le energie (le forze) che devono invece essere messe a disposizione nel momento in cui si vuole e ci vuole un cambiamento. Si potrebbe dire, infatti, che la violenza sia una degenerazione della forza, ma che quest’ultima sia comunque sempre presente e necessaria nelle nostre vite. Qual è allora il confine tra forza e violenza?

Vassallo. Gli esseri umani dovrebbero esercitarsi solo in una forza, quella della conoscenza. A differenza di altri, non credo affatto nella violenza del conoscere, bensì nel voler liberamente conoscere. La conoscenza possiede una forza non violenta. È la sua potenza elegante, che va distinta in modo categorico dalla forza brutale. Chi non conosce rimane un bruto – ce lo hanno detto in molti, da Aristotele in avanti, e qui non posso che ribadirlo. La violenza brutale dell’individuo risiede sempre in una ricerca che comprende qualcosa che conoscenza non è. Se fuggo dalle mie responsabilità, se non dialogo con i miei simili in situ, se mi faccio bello/a grazie al denaro, poco o molto, con cui li gratifico, e mi gratifico, non mostro rispetto, ma pratico violenza. L’invasione non consiste in una forma di violenza?

Lucatello. L’incontro con l’altro mette in discussione quella che può essere riconosciuta come la nostra identità. Dalle più recenti teorie femministe – possiamo ricordare gli studi di Judith Butler per quanto riguarda il gender o la categoria del nomadismo teorizzata da Rosi Braidotti – vengono smontati le identità e i ruoli tipici attraverso i quali abbiamo costruito il mondo che abitiamo. Un lui e una lei, la famiglia tradizionale, il pubblico e il privato. Ma le identità così intese uniscono o dividono?

Vassallo. Ho scritto parecchio di e sulle filosofie femministe. Credo, tuttavia, che l’identità personale debba avere poco a che fare con il sesso e con il genere di appartenenza. Se sei solo una femmina/donna o un maschio/uomo, tutto può pure andare bene per i più, ma tu non sei tu, e il tuo io viene messo nella centrifuga marchiata ‘femmina/donna’ o in quella marchiata ‘maschio/uomo’. Le nostre appartenenze, al di là delle apparenze, rimangono molteplici. Basti pensare alle nostre storie personali: la tua potrà mai essere identica alla mia? L’appartenenza di genere (‘tu sei una donna’, ‘tu sei un uomo’) è normativa e incide in modo deleterio sulla nostra identità personale, che dovrebbe piuttosto ‘rintracciare’ in ognuno di noi proprio il nostro essere unici. Circa, l’appartenenza sessuale, invece, la biologia ci sta dicendo che la ripartizione in due sessi (femmina e maschio) non ha ragion d’essere. Eppure, la maggior parte di noi continua a gettare via intere esistenze incardinandole sulla fissazione di questa dicotomia, nonché sulla fissazione della complementarietà tra i due sessi. Già, perché non si conosce e non si vuol conoscere. Perché ci si immerge sempre più nella brutalità.

Lucatello. Nella sua definizione, la responsabilità si porta dentro il fatto di dare una risposta, che può essere verso noi stessi ma anche, e soprattutto, a una voce altra. Nel nostro agire, però, tendiamo più a perseguire l’utile, quello che ci interessa, rispetto a ciò che riteniamo giusto. Professiamo il giusto, ma perseguiamo l’utile. Cosa può dirci oggi della responsabilità individuale e di quella collettiva?

Vassallo. Credo che la responsabilità consista in un pensare, parlare, agire oggettivo. Cosicché non posso pensare, parlare e agire senza poi renderne conto, in modo sempre oggettivo, ad altri che sposano l’oggettività. Se ti dico «Ti sfido: vediamo se mi amerai fino al limite!» – a fronte di una dichiarazione d’amore, in cui rimane ignoto dove stia l’amore – oppure se tu dici (consciamente) a te stesso/a «L’amo perché io con lui/lei non c’entro nulla», o «L’amo perché così mi avvantaggio sulla scala sociale», o «L’amo per la sua esoticità», o «L’amo perché abita in una bella casa», o «L’amo perché abita in una brutta casa», e così via, quando, da parte di chi sta al di fuori di queste problematiche realtà, viene rivolta l’ovvia domanda «Ma non si tratta di amore. Perché mai pensi e parli in tal modo?», e la risposta è «Mah, le cose così sono andate», significa che si ha aderito a una sorta di irresponsabilità individuale, pari a quella in cui la replica è la seguente: «Mah, perché no? La luna del resto è fatta di formaggio». Questo per quanto riguarda la responsabilità individuale. A mio avviso, quando manca quest’ultima, si è incapaci di assumersi qualsiasi responsabilità collettiva, ovvero… la luna sarà pur sempre fatta di formaggio. Può essere conveniente credere a questi tipi di ‘amore’ e a questi tipi di ‘luna’, ma non vi è alcunché di oggettivo in ciò, né di realistico, né, di conseguenza, nulla che corrisponda a una qualche libertà in cui ci si assume responsabilità.

Lucatello. Nel discorso politico di oggi si parla di alternanza, come di qualcosa di alternativo, mentre è spesso la ripetizione di uno stesso pensiero. Esistono oggi spazi di discussione veramente alternativi?

Vassallo. Di alternanza e alternativa si parla da sempre, nel discorso privato e nel discorso pubblico, politico. Il politico gioca sul fatto che la gente non sa curarsi della propria identità personale, delle proprie alternative rispetto allo status quo privato, e così egli offre prospettive, spesso illusorie, sul piano pubblico. E la gente si sente egoisticamente ricompensata delle proprie carenze private, oppure a queste ultime si attacca, con fare egoistico, egocentrico, egotistico, rifiutando il pubblico, o optando per una politica della convenienza individualistica, non della convinzione nella polis. Se il pubblico deve dipendere, come credo, dalla conoscenza e dalla responsabilità del singolo individuo rispetto al bene comune – anche perché, detto brutalmente, perdonatemi, «non dovrei pisciare sul suolo pubblico, quando non piscio sul pavimento della casa in cui vivo» –, allora la via migliore per un’alternativa al ‘segnare il territorio, da animali non umani’ rimane la fatica del pensare e del conoscere.

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