DUE

Eravamo sull’Ortigara nel giugno 2007, in occasione del novantesimo anniversario della battaglia; aiutato dall’evidenza dei luoghi, avevo appena finito di raccontare ai compagni che mi avevano seguito da Mori e da Brentonico delle migliaia di uomini che si erano scontrati per conquistare o difendere quel nulla sassoso, della condotta dei soldati e dei comandi, delle molte ragioni della sconfitta degli italiani ad onta della loro superiorità in uomini e mezzi. Alla fine, un bambino mi chiese: «Signore, lei che sa tante cose, può dirmi perché fecero la guerra?».
Non risposi nulla, perché mi vennero alla mente solo risposte parziali: colpi di pistola che uccisero un erede al trono, fede cieca in ideologie ottocentesche, interessi economici nazionali in contrasto, ‘trappola malthusiana’ per un’Europa matura e ormai decadente, recenti tecnologie e immense risorse di cui ormai gli eserciti disponevano ma che le piazze e i generali ignoravano; tutto troppo complicato e cerebrale per poterne parlare in quel momento e in quel luogo.
Poi, più volte ho ripensato a quella domanda, e oggi saprei cosa rispondere: quei lutti e quel disastro, la stessa tragica fine dell’Europa come potenza mondiale si sono compiuti perché chi comandava o si agitava nelle piazze negava il peso della propria responsabilità; o meglio la declinava legandosi a bandiere di parte e ad una confusa tradizione di valori ottocenteschi; ma non ammetteva neppure che ve ne potesse essere una verso i propri concittadini, a carico dei quali si sarebbero poi consumati i lutti e le sofferenze di quella decisione.
Sarebbe fin troppo facile ricercare nelle odierne cronache italiane la prova dell’irriducibile persistenza di questo atteggiamento; e non solo nel comportamento delle forze politiche, ma anche in quello delle infinite corporazioni in cui è frammentato il panorama della classe dirigente nazionale, e purtroppo di gran parte dello stesso corpo del popolo italiano. Mi pare però urgente ricordare che nel 2013 è ricorso un anniversario troppo importante per essere taciuto: cinquant’anni dalla strage (o forse dal «genocidio», come ebbe a definirla con molte ragioni l’avvocato Sandro Canestrini, e come ribadisce Marco Armiero nel suo recente libro Le montagne della patria) del Vajont, la quale di tale assenza di senso di responsabilità rappresenta un episodio di dimostrazione sintetica, tragica ed eloquente. Proprio per questo motivo costituisce un dovere ricordarla, a dispetto delle pretese di ‘diritto all’oblio’ e del fatto che in Italia l’unico ‘processo di ragionevole durata’ sembra essere quello della rimozione; quello che è avvenuto non può e non deve essere cancellato con un atto di indifferenza, perché agli errori del passato occorre attingere, almeno per tentare d’evitare di commetterne altri. I morti furono poco meno di duemila, circa otto volte di più delle vittime della catastrofe in Val di Stava (1985), uno dei più grandi disastri dovuti alla mano dell’uomo.
Più che le dimensioni della tragedia del Vajont, significative furono due caratteristiche davvero uniche: la sua consapevole preparazione, prima; e la negazione delle proprie responsabilità da parte di chi l’aveva provocata, dopo; legate l’una all’altra, perché la prima trovava appunto spiegazione nella seconda.
Gli imputati e i loro predecessori ai vertici della SADE sapevano bene non solo della frana del monte Toc, individuata da anni e seguita con attenzione da geologi ed esperti; ma anche dell’ondata d’acqua che ne sarebbe seguita. Avevano affidato un’apposita ricerca all’Università di Padova e costruito un bacino in scala ridotta, in cui erano stati simulati gli effetti di un eventuale crollo. Tutti gli studi contavano su un tempo di caduta più lento, e quindi su un’ondata di minore volume; ma si trattava solo di una speranza. Si ignorava una costante legge della fisica, che conosce solo soluzioni ‘drastiche’: una volta che le forze della gravità abbiano prevalso su quelle dell’attrito, la velocità di caduta può essere varia, ma risponderà sempre alla regola della massima accelerazione possibile.
Scelsero di continuare a elevare il livello delle acque del lago, immettendole attraverso canali di gronda, aumentando così gli effetti dell’imminente disastro. La ragione risiedeva forse nell’intento di ottenere un’indennità maggiore in occasione dell’imminente nazionalizzazione, o nell’orgoglio di vantare e sfruttare fino in fondo un’opera che costituiva un primato mondiale nella tecnica di costruzione di dighe. Ma, prima ancora, fu decisiva la negazione di ogni responsabilità verso la comunità marginale dei montanari e dei contadini destinati ad essere vittime della strage; di essi nessuno sembrava doversi preoccupare, perché rappresentavano un settore di popolazione estraneo alla modernizzazione dell’Italia, rimasto in quelle aree di montagna invece di emigrare nei luoghi della ricchezza e del progresso, che (allora come oggi) impegnava gli interessi della comunità nazionale, e quindi poteva essere trascurato a fronte dell’esigenza di produzione di energia della nascente industria italiana.
Quanto avvenne dopo ne è la dimostrazione. Una giornalista coraggiosa, Tina Merlin, già nel 1961 aveva pronosticato la frana e l’inondazione, sia pure non di tali dimensioni (erano troppo orribili per essere anche solo concepite); e lo aveva fatto con quella singolare capacità di preveggenza propria solo di chi, non essendo vincolato ad un risultato immediato da conseguire, riesce ad essere libero nelle conclusioni. Essa era stata denunciata e tratta a giudizio per rispondere di tali supposizioni; era stata poi assolta dai giudici di Milano perché intanto si era verificata una frana minore in località Pontesei, a dimostrazione della concretezza e fondamento dei suoi timori. Dopo il disastro, fu invitata in televisione a raccontare quanto sapeva, ma solo da quella francese: occorrerà attendere il 1997 (non è un refuso, trascorsero ben trentaquattro anni) perché tale messaggio venga trasmesso anche dalla televisione italiana.
Nel frattempo, il meglio della stampa italiana dava fondo alle risorse dei suoi più eccellenti giornalisti (tra essi, Indro Montanelli, Giorgio Bocca e Dino Buzzati). Secondo loro, chi formulava accuse era uno sciacallo: era solo avvenuto che un sasso era caduto in un bicchiere pieno e l’acqua si era riversata sul tavolo, dove purtroppo abitavano degli uomini, senza che si potesse stabilire, tuttavia, se la colpa fosse di tale presenza o di chi aveva fatto cadere il sasso. Quando «L’Unità» pubblicò i documenti trafugati presso l’Università di Padova che provavano la previsione dell’evento, venne arrestato il dipendente che li aveva sottratti, perché il rispetto della missione di ricerca e delle tradizioni di riserbo di una istituzione così antica era ben più importante del tentativo di fare chiarezza sulla strage; egli fu poi assolto, ma solo per insufficienza di prove nell’identificazione della sua responsabilità.
Intanto, però, Mario Fabbri, il giovane e testardo giudice istruttore di Belluno, andava avanti nel suo lavoro; il processo proseguì tra molte difficoltà, perizie rinnovate e spostamenti di competenza in luoghi lontani; e, poche ore prima della prescrizione dei reati, le condanne divennero definitive. Qualcuno lo ricorda ancora: nel 2013 gli alpinisti delle Dolomiti bellunesi hanno voluto commemorare quella vicenda e conferire un riconoscimento speciale a quel giudice, ora in pensione, in occasione della consegna del ‘Pelmo d’oro’ a Longarone, premio dedicato alla valorizzazione della cultura alpina locale.
Sappiamo bene che l’affermazione della verità fu un risultato che non restituì la vita alle vittime, né queste ai sopravvissuti; quella che venne vinta fu solo la triste battaglia che può condurre la magistratura, chiamata a intervenire dopo che i fatti sono già accaduti. Volendo citare la rappresentazione di Marco Paolini, che ha segnato un momento di riscatto per la televisione statale e per l’intera coscienza della nazione, «è come segnare un goal quando si è sotto di otto punti». Eppure, è solo guardando a questi esempi di coraggio e di dedizione al dovere che si riesce a nutrire qualche speranza in un futuro comune.

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