IMPRONTA

La tipografia nasce come tecnica di trascrizione e riproduzione in serie di testi estesi in forma di libro, mediante realizzazione, composizione e stampa di caratteri mobili. Nella tipografia tradizionale, il ricorso all’impronta, tipico di ogni tecnica di stampa (i termini ‘stampa’ e ‘impronta’ sono sinonimi e derivano rispettivamente dal greco στείβειν e dal latino imprimere, entrambi con il significato di ‘premere’, ‘calcare’), non riguardava solo l’ultima fase del processo ma anche la prima, cioè quella, peculiare, della realizzazione dei caratteri mobili, che avveniva sfruttando una combinazione di impronte: dal punzone alla matrice, per battitura; dalla matrice all’occhio del carattere, per fusione. Queste tre fasi principali, che originariamente avevano luogo all’interno di uno stesso spazio di lavoro, si sono in seguito suddivise in attività distinte, svolte da persone diverse in diversi luoghi.
Pur attraversando varie fasi evolutive, per circa cinque secoli la tipografia ha conservato la propria, essenziale, natura fisica di stampa a rilievo basata sull’impronta.
Una radicale mutazione ha avuto luogo a metà del secolo scorso, con l’introduzione della fotocomposizione e della stampa offset. Il nuovo procedimento fotografico ha portato alla sostituzione delle matrici metalliche in rame e ottone con matrici fotografiche, e dei caratteri in piombo con un’impressione di luce. Contestualmente, una superficie di stampa piana ha preso il posto di quella a rilievo, formata dagli ‘occhi’ dei caratteri in piombo composti uno di fianco all’altro, decretando una forte marginalizzazione della stampa tipografica propriamente detta.
La più recente rivoluzione digitale, avvenuta attorno alla fine degli anni Ottanta, associata allo sviluppo dei sistemi di desktop publishing (DTP), ha reso la tipografia accessibile a qualsiasi possessore di un personal computer.
Ciò ha suscitato un diffuso interesse per la disciplina, che in alcuni casi è sfociato in uno studio approfondito, in altri non è andato oltre una fascinazione superficiale, estetica, per la varietà stilistica dei caratteri.

Il carattere scritto è e rimane la base di ogni attività tipografica
E. Ruder, Typographie, Niggli Verlag, 1969.

La scelta di mettere a disposizione di un’utenza non professionale – generalmente sprovvista di alcuna competenza tipografica – software di videoscrittura pronti all’uso, ha comportato l’introduzione di una pre-impostazione generica dei programmi, detta ‘default’ (termine che in lingua inglese ha significati per lo più negativi, che vanno da ‘fallimento’ ad ‘assenza’, nel caso migliore) la quale, garantendo la decifrabilità di buona parte degli stampati prodotti quotidianamente in modo spontaneo, ha finito per rassicurare i novelli, inconsapevoli tipografi, distogliendone l’attenzione dall’effettiva leggibilità dei loro lavori.
Nel tempo, l’accessibilità e velocità di utilizzo degli strumenti digitali e la loro connessione in rete hanno condotto a una significativa estensione d’uso della tipografia, da strumento di trascrizione a vero e proprio strumento di scrittura (questo esito era stato anticipato dalla macchina da scrivere che, per alcuni aspetti, è stata la progenitrice degli odierni sistemi di DTP).
La diffusione di dispositivi portatili di piccole dimensioni e, in particolare, delle applicazioni di messaggistica istantanea, ha accentuato ulteriormente la velocità e facilità d’uso della scrittura tipografica guidata.
Così, nel corso di quasi sei secoli, una disciplina praticata da poche persone, dotate di una competenza specifica (spesso gelosamente custodita), si è trasformata in un mezzo di comunicazione a uso e consumo di una vasta parte della popolazione mondiale, che spesso la pratica senza alcuna consapevolezza.
Ormai da tempo – più o meno a partire dagli anni Settanta – l’insegnamento della calligrafia non rappresenta più un momento fondamentale e fondante dell’istruzione primaria. Si è affermata la convinzione che la scrittura sia un mezzo di espressione della personalità, più che di comunicazione.
Nel frattempo, i sistemi digitali si sono affermati come mezzi privilegiati di comunicazione scritta, soppiantando la scrittura manuale e relegandola per lo più ad annotazioni di carattere personale.
La scarsa considerazione del valore formativo della calligrafia ha finito per riflettersi sulla tipografia; lo dimostra il fatto che, pur rappresentando una parte fondamentale del repertorio teorico e tecnico di un progettista grafico, essa stenti a trovare adeguata collocazione e valorizzazione all’interno dei programmi di molti corsi di laurea a indirizzo progettuale. Per la verità, l’insegnamento della tipografia dovrebbe non solo essere potenziato nelle scuole di progetto, ma auspicabilmente esteso all’istruzione primaria, dove attualmente trova posto solo come corollario all’insegnamento degli strumenti informatici. Ne deriverebbe una maggiore competenza ed efficacia nella redazione dei documenti prodotti quotidianamente e, soprattutto, la possibilità di un vero e proprio imprinting valoriale.
La tipografia non solo può essere insegnata ma può, essa stessa, ‘in-segnare’. La composizione tipografica del testo da lettura, che della disciplina costituisce il denso nucleo originario, coinvolge infatti una serie di princìpi dal forte carattere propedeutico, che purtroppo oggi sono troppo spesso trascurati in favore di un approccio eccessivamente pragmatico e precettistico, talvolta ai limiti del dogmatismo.
Tutti i grandi trattatisti del passato concordano su quale sia l’obiettivo ultimo della composizione tipografica, e cioè la leggibilità.
Per Jan Tschichold «l’agio della lettura è il criterio supremo di tutta la tipografia». Lo scriveva in un saggio del 1949 intitolato Ton in des Töpfers Hand (Argilla nelle mani del vasaio), successivamente inserito nella raccolta Ausgewählte Aufsätze über Fragen der Gestalt des Buches und der Typographie (Saggi scelti sulla forma dei libri e della tipografia). La raccolta – recentemente riproposta da Ronzani Editore con il titolo La forma del libro, nella traduzione italiana di Lucio Passerini – contiene una serie di saggi scritti da Tschichold nell’arco di quarant’anni, che trattano questioni di natura teorica e pratica, delineando una precisa morale tipografica. Non a caso, Robert Bringhurst, curatore dell’edizione in lingua inglese del 1991 intitolata The form of the book, decise di aggiungere l’eloquente sottotitolo Essays on the Morality of Good Design.
Perseguire la leggibilità significa assumere un atteggiamento morale, virtuoso, significa voler assolvere nel modo migliore il proprio compito (ciò che i greci definivano ἀρετή).
Il tipografo è chiamato a prendersi cura del testo e del lettore, cioè a mettersi al loro servizio (ancora Tschichold: «Di solito, l’unica ricompensa del lungo e in realtà mai concluso apprendistato del tipografo è la consapevolezza di essersi messo al servizio di un’opera importante e di un piccolo numero di lettori dallo sguardo sensibile […]»).
Va evitata qualsiasi interferenza, che potrebbe compromettere la leggibilità del testo. Nel saggio del 1955 The Crystal Goblet – sottotitolato Printing Should Be Invisible – Beatrice Warde paragonò la tipografia a un calice di cristallo, trasparente, che contiene il vino senza nasconderlo alla vista né alterarne le caratteristiche. Il concetto è ribadito in un altro monumento della saggistica tipografica, i First Principles of Typography, scritti da Stanley Morison e pubblicati nel 1966: «Any disposition of printing material which, whatever the intention, has the effect of coming between author and reader is wrong».
L’invisibilità dell’opera del tipografo rappresenta un esercizio di sobrietà, un atteggiamento in netta contrapposizione rispetto alla spasmodica pulsione a elaborare ed esibire uno stile personale riconoscibile. Tornando a Tschichold: «Nel libro, supremo dovere del progettista responsabile è quello di abbandonare l’ambizione di esprimere se stesso, perché egli non è il padrone del testo ma solamente il suo umile servitore». L’originalità non dev’essere un’ossessione iniziale – come ha affermato l’architetto Alvaro Siza – ma, tutt’al più, un valore aggiunto al progetto. In precedenza, un altro architetto, Ludwig Mies van der Rohe, aveva confidato al collega Philip Johnson che «è molto meglio essere bravi che originali».
Termini come ‘giustezza’ e ‘giustificazione’ sono ricorrenti nel lessico tipografico. La giustezza è la larghezza di una riga di testo, elemento fondamentale di dimensionamento del testo stesso e di determinazione del corretto, fisiologico, ritmo di lettura. La giustificazione è un’operazione mediante la quale tutte le righe di un blocco di testo (detto, appunto, ‘giustificato’) sono portate ad avere la stessa giustezza; nella tipografia in piombo, il medesimo termine riguardava anche una serie di operazioni di rettifica delle matrici, fondamentale per poter realizzare una fondita di caratteri funzionali.
La ricerca della leggibilità implica sempre un aggiustamento, un bilanciamento, una distribuzione equilibrata dei pieni e dei vuoti, che riguarda il disegno delle lettere e il loro accostamento, la loro distribuzione in un’intera riga e tra le righe di una pagina. Il tipografo ambisce all’equilibrio, alla misura, alla temperanza.
Il testo è vivo, e ogni testo è diverso dall’altro. La lingua in cui è scritto, il genere letterario a cui appartiene, condizionano la lunghezza media delle parole in esso contenute. Non esiste una ricetta unica, che garantisca una composizione ideale. Si può – si dovrebbe – invece ambire a una composizione ‘perfetta’; ovvero, come ci ricorda il vocabolario Treccani, «fatta nel migliore dei modi possibili». La perfetta tipografia appartiene quindi al dominio della realtà («Typography is never an inch removed from real life», scriveva Beatrice Warde) ed è raggiungibile non solo attraverso la conoscenza tecnica, ma soprattutto grazie al discernimento degli obiettivi prioritari e al buon senso, che dovrebbe guidare ogni singola scelta.

The object is not to train future artists but to train future citizens.
Can some study of typography, and some elementary practice, contribute to that end?
B. Warde, Typography in Art Education, in The Crystal Goblet. Sixteen Essays on Typography,
The Sylvan Press, 1955.


Accuratezza, sobrietà, buon senso, sono qualità essenziali per approdare alla composizione di un testo perfettamente leggibile. L’esercizio di tali qualità è in grado di lasciare un’impronta profonda nella mente di chi lo pratica.
In questo consiste l’imprinting tipografico: nell’esercizio di princìpi, al tempo stesso progettuali e morali, utili a formare non solo progettisti capaci ma anche individui virtuosi.
Se è vero, come affermava Norman Potter, che ognuno è un designer, è ancora più sicuro che ogni designer è una persona, le cui qualità si riflettono inevitabilmente nell’attività progettuale. Considerato che l’opera di un designer lascia sempre un’impronta nel mondo, piccola o grande che sia, è necessario farsi carico di questa responsabilità e assolverla nel migliore dei modi possibili.
L’appello lanciato da Beatrice Warde nel 1955 è quindi ancora valido, e la risposta alla sua domanda – oggi come allora – è affermativa.

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