IMPRONTA

Norma Zamparo intervista Nicole Janigro

La guerra nella ex-Jugoslavia è un conflitto che ci ha riguardato molto da vicino e che ora sembra un grande rimosso nella nostra storia. Quali segni ha lasciato nella riflessione politica sulle guerre contemporanee?

In questo periodo sta girando in Italia uno spettacolo tratto dal Diario da Belgrado di Biljana Srbljanovic´: giovanissima, durante il bombardamento della città, ha registrato giorno per giorno ciò che stava accadendo. Lo spettacolo affronta proprio la questione del rimosso: si parla ancora di questo conflitto? Dal punto di vista letterario e culturale direi di sì, se ne parla invece poco dal punto di vista di una riflessione politica, forse perché pur avendo riportato la guerra nel centro dell’Europa – gli allarmi aerei si rimettono in azione per la prima volta dal secondo conflitto mondiale, i corpi scheletriti dei detenuti prigionieri risvegliano le immagini dei campi di concentramento – è rimasto un conflitto regionale.
Nella Sarajevo occupata dicevano: «voi ci osservate come se fossimo in un panopticon, ma siamo un esperimento, quello che sta accadendo a noi potrà accadere anche in altre parti del mondo». Le caratteristiche di quel work in progress durato quasi dieci anni hanno rappresentato un ‘modello’ – la popolazione civile come target, la presenza diffusa di ogni tipo di media, scontro tra modernità e tradizione, tra città e campagna, tra populismo e occidentalismo – per quelle che sono state definite le ‘nuove guerre’.
Il ‘caso jugoslavo’ ha segnato profondamente il farsi bellico nella nostra età contemporanea e ha prefigurato alcuni elementi del terrorismo degli anni successivi, come la scelta di uccidere civili colpevoli di essere di una certa nazionalità o in un certo luogo, usando i media per diffondere terrore (come è accaduto con i video delle teste tagliate). Raramente ci si sofferma su questi nessi.

La mancanza di una riflessione politica può lasciare spazio a una narrazione pubblica, ideologizzata, in cui molte memorie, individuali e familiari, non si riconoscono. È successo così anche nell’ex-Jugoslavia?

Nel caso della ex-Jugoslavia l’‘uso pubblico della memoria’ ha avuto storicamente una grande importanza. Secondo alcuni studiosi questo conflitto è iniziato, anche, a causa della mancata elaborazione dei molti rivolgimenti accaduti durante la seconda guerra mondiale. La lotta contro l’occupazione tedesca si è intrecciata a ‘una guerra civile’, per utilizzare l’espressione di un importante libro di Claudio Pavone: all’interno degli stessi gruppi nazionali i croati potevano essere ustascia, partigiani o zona grigia; i serbi potevano essere cetnici, partigiani o zona grigia. Nella Jugoslavia ‘liberata’ questo tema era un tabù. C’erano memorie che ‘eccedevano’. In molte famiglie i lutti sono rimasti privati, quasi segreti, perché non politically correct. Dentro casa non si parlava di certe cose: c’erano accenni vaghi, silenzi sottilmente minacciosi, in una famiglia su tre la memoria era divisa proprio per i rovesciamenti dei fronti e delle alleanze prodotti dall’incontro del conflitto mondiale con le situazioni locali.
Pubblicamente si progrediva per anniversari di date, battaglie, battesimi di fabbriche, nastri tagliati, trasformazioni di luoghi di culto e di musei. Solo dopo la morte di Tito sono emersi episodi censurati dell’epica partigiana (i morti di Bleiburg, la battaglia dello Sremski Front, le deportazioni sull’Isola Calva). Prima che inizi la mattanza dell’ultimo conflitto vengono, e sono immagini simbolicamente forti, distrutti i monumenti che ricordavano la seconda guerra mondiale senza retorica. Tra questi, sarà preso a cannonate il monumento davanti al campo di concentramento di Jasenovac, Fiore di pietra, di Bogdan Bogdanovic´.

Come è cambiato il rapporto tra ricordi individuali e narrazione pubblica durante il conflitto degli anni Novanta?

Le guerre inter-jugoslave di fine Novecento hanno tragicamente riaperto la declinazione del ricordo singolare dell’io con la memoria collettiva del noi, con una caratteristica, però, particolare. Durante la seconda guerra mondiale, ‘io’, in quanto ‘io’, potevo scegliere: andare con i partigiani, rimanere in città, arruolarmi con gli ustascia, rinchiudermi in casa a Zagabria o a Belgrado (come hanno fatto Krleža e Andric´). In questa guerra, invece, come scrive Slavenka Drakulic´, ognuno era «inchiodato alla nazionalità» in quanto bosniaco, croato o serbo. Come se fosse scontato che la mia posizione personale coincidesse con la mia appartenenza nazionale e se non mi identificavo con la politica dei miei leader ero immediatamente considerato un traditore. The others erano quelli che non si riconoscevano in una nazionalità: dire ‘io’ in certe situazioni era estremamente rischioso.
Le memorie sono legate alle esperienze diverse e alle età diverse dei singoli, a una dimensione conscia e a una dimensione inconscia (sappiamo quanto può essere importante la dimensione onirica nell’elaborazione di lutti e di traumi). Credo che siano stati e siano tuttora soprattutto il cinema e la letteratura (diari, testimonianze, racconti, romanzi) luoghi per affrontare e curare le ferite e le perdite, sradicamenti e atrocità.

Manca una elaborazione politica anche su quello che è successo con il corpo delle donne, un ‘campo di battaglia’ su cui lasciare la propria impronta?

Gran parte del discorso politico ufficiale continua a utilizzare in modo ideologico e a fini elettorali anche la violenza che ha investito almeno ventimila donne. Da parte di associazioni femminili, e non solo, che hanno dedicato la loro attività al sostegno concreto e a una diffusione delle iniziative per affrontare un argomento considerato ‘scabroso’, c’è stato un impegno costante affinché la società civile non possa dimenticare l’entità dei crimini avvenuti. Ci sono situazioni, come a Sarajevo, dove le associazioni sono ancora costrette a chiedere giustizia per le donne che rischiano di incontrare per strada il proprio carnefice.
Ci sono state anche riflessioni di sociologhe femministe che hanno cercato di capire come mai proprio in Jugoslavia, uno dei paesi dell’est dove la condizione femminile era più avanzata, anche dal punto di vista della libertà sessuale. E c’è chi ha azzardato un confronto con l’enormità della violenza sadica che subiscono le donne nel nord d’Europa, come testimoniano i loro gialli più famosi. Notoriamente paesi più che avanzati.

Che cosa resta, oggi, di quel dramma collettivo?

Se si leggono i testi, letterari e di testimonianza, si coglie una ossessione per la memoria. Noi qui e adesso parliamo, e giustamente, di una ‘necessità’ della memoria, ma nella ex-Jugoslavia è stata, ed è tuttora spesso, un mezzo per imprigionare il singolo all’interno di un discorso collettivo e memorialistico che rende ancora più difficile elaborare la propria storia personale e individuale.
Ripeto: il cinema e la letteratura danno spazio a quell’io che continua a sentire il bisogno di raccontarsi. Con La voce di Ajla(Forum, 2020) Maria Silvia Bazzoli condensa in una struttura dai toni fiabeschi i dettagli di infiniti destini femminili, come fa la regista Jasmila Žbanic´ con Grbavica. Il segreto di Esma (2006) e con Quo Vadis, Aida (2020). Un altro film che parla di memorie segrete è L’altro lato di ogni cosa (2017) dove la figlia, Mila Turajlic´, la regista, intervista la madre, nota attivista serba, che vive in un appartamento dove una stanza è chiusa da decenni.
Sono tante le autrici, da Elvira Mujcˇic´ a Tanja Stupar Trifunovic´, da Tatjana Gromacˇa a Juliana Adarovic´, che tessono i fili della storia e della memoria. Diverse voci maschili cercano invece di ricostruire e di capire quanto è avvenuto attraverso una prosa documentaria (Jergovic´, Đikic´, Ovcˇina, Perišic´) che per parlare del futuro si fa fantascientifica.
A proposito di passaggi generazionali, un leitmotiv letterario è quello dei ricordi di infanzia: la guerra ha coinciso con la disintegrazione dell’intero paese, ha spezzato una collettività, congelato i suoi ricordi, non c’è stata più la possibilità, ad esempio, di andare al mare, di vedere su uno stesso scaffale le tagliatelle slovene e il vino macedone, che fino a quel momento erano parte della quotidianità.

Quali altre impronte ha lasciato questa guerra?

Ha segnato il paesaggio, in certi casi lo ha completamente mutato. Ci sono zone molto ampie della Bosnia e della Croazia che ora sono natura, boschi e foreste. Non hanno più abitanti. L’impronta che il conflitto ha lasciato nel paesaggio è proprio questa, una desertificazione dell’umano. E là dove invece incontriamo musei e monumenti, troviamo rappresentato solo un punto di vista su quanto è successo, è raro uno sguardo d’insieme. Continua lo scontro di memorie, mentre per le generazioni passate e quelle future è importante provare a immaginare una visione a mosaico che possa integrarle.

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