IMPRONTA

Visivamente, l’impronta è innanzitutto un segno del corpo. Essa può, forse, essere considerata un sigillum nell’accezione bruniana del termine (cfr. Giordano Bruno, De imaginum, signorum, et idearum compositione), un segno contratto che sollecita una intuitio, orientando lo sguardo e la riflessione.
È così per le impronte di uomini e animali lasciate sul suolo, già meticolosamente osservate dagli antichi arabi. L’analisi di quelle impronte permetteva alla ḳiya-fat al-athar – parte di un sapere fisiognomico assai ampio che attraversa il tempo e lo spazio, l’Oriente e l’Occidente – di ritrovare un ladro che fugge, una bestia o un cammino perduti; di distinguere le impronte di un uomo da quelle di una donna, quelle di un giovane da quelle di un vecchio, quelle di un uomo bianco da quelle di un uomo di colore, quelle di uno straniero da quelle di un nativo. In fondo, è il silenzioso incedere di quelle impronte a raccontarci una storia che, seguendo un moto esterno-interno, rivela frammenti dell’identità di una persona, introducendoci nell’essenza più profonda di ciascuno, ovvero l’anima.
Ma anche l’anima ha le sue impronte, quei segni rivelatori di fatti, circostanze, propositi e intenzioni che l’hanno plasmata nel tempo, scrivendone un po’ la storia. Ritorna, allora, il tema dell’impresa quale ‘effigie dell’animo’ (Scipione Bargagli) e ‘metafora visiva’ (Guido Arbizzoni), polisemica espressione ritrattistica storicamente complementare al ritratto fisico, fisiognomico. Sospesa tra corpo e anima, tra un’immagine e una parola strette insieme in un ‘nodo sapiente’ (Mino Gabriele), l’impresa accompagnava il portatore, dapprima finemente ricamata sulla veste oppure dipinta o scolpita sullo scudo o sull’elmo.

L’emblema-impresa è il bloccarsi, appunto, della scrittura, dell’immagine,
del significante, è la traccia della luce nell’ombra e dell’ombra nella luce,
è la ricerca della verità e della divinità (il padre Logos) non lontano da noi,
presente nel riflesso chiaroscurale della pagina-tela; è il farsi della traccia,
l’imprimere e l’essere impressi.
Giancarlo Innocenti, L’immagine significante. Studio sull’emblematica cinquecentesca,
Liviana, Padova 1981, p. 10.

Tra le varie radici etimologiche, i trattatisti menzionano il verbo imprimo, laddove l’impresa «imprime, determina il segno, si fa traccia, coagula l’immagine sulla linea d’emergenza della formazione delle forme là […] dove l’immagine e la parola si collocano ambedue nello spazio grafico della ‘scrittura’» (Innocenti, L’immagine significante, cit. p. 11). Ma, più comunemente, il termine è ricondotto al verbo imprahendo, imprendere o intraprendere, in quanto personale proponimento che ci si prefigge, ostinato obiettivo suggerito e rappresentato simbolicamente da un motto e da una figura che reciprocamente si interpretano. Nel suo Dialogo delle imprese militari et amorose (1551), è lo storico comasco Paolo Giovio (1483 o 1486-1552) a enumerare, ancorché senza alcun intento trattatistico, le cinque ‘condizioni universali’ per la formulazione della ‘perfetta impresa’. E, nel definire fin dal titolo i principali ambiti di applicazione della materia (le armi e l’amore), il Giovio guarda indietro, rivolgendosi a quella società cortigiana che lui, uomo erudito, ben conosceva. A essa, pubblico educato e gentile, egli presentava, per mezzo di ausili mnemonici, la vita, la filosofia individuale e le intenzioni di quei personaggi che trovavano al contempo spazio nelle pagine della storia universale di cui Giovio si fece acuto interprete e narratore.
È così, per offrirne solo degli esempi, nell’impresa di Francesco Maria Della Rovere, duca d’Urbino, ideata dal Giovio, su invito dell’ambasciatore Tomaso de’ Manfredi, «per lo stendardo e per le bandiere de’ trombetti del Duca». Per lui scelse per corpo una palma, vulgato simbolo di virtù e vittoria, che aveva la cima piegata verso terra in ragione di un grosso peso di marmo che vi era attaccato, accompagnata dal motto ‘Inclinata resurgit’. Come la palma, legno che tradizionalmente non cede davanti a chi lo costringe e lo opprime (cfr. Andrea Alciato, Emblema XXIV), il virtuoso Francesco Maria seppe, infatti, resistere nel tempo alla furia dell’avversa fortuna.
E, ancora, è così nell’impresa di Marcantonio Colonna, esibita in occasione della guerra di Verona dell’ottobre-novembre 1516. Qui è lo stesso Giovio a ricordare che la «veste in mezzo il fuoco, la quale non ardeva» era fatta di quel lino d’India detto dai Greci asbéstino, secondo quanto riportato da Plinio (Naturalis Historia, 19, 19-20). Il termine, combinando l’α privativo con il verbo σβέννυμι, allude alla natura incombustibile del tessuto: è il lino vivo, che non brucia, sul quale il fuoco ha un effetto smacchiante migliore dell’acqua, usato per le tuniche funebri dei re sì che le ceneri del corpo potessero essere ben distinte dalle altre. È una fibra rara e preziosa, di colore fulvo, abituata a convivere con il caldo delle zone desertiche d’India, difficile da tessere proprio perché caratterizzata da un filo corto. Al corpo, fu aggiunto il motto ‘Semper pervicax’, volendo affermare e rimarcare la costanza dell’azione di Marcantonio contro le forze nemiche, le quali non sarebbero riuscite a fiaccarne l’ostinazione.
Ma, oltre ogni genere letterario, impronte dell’anima sono anche quei segni invisibili impressi dagli incontri, ricercati o fortuiti, che contribuiscono a dare forma, a formare quell’anima, ovvero, nel suo senso più alto e nobile, a educarla. È, allora, il maestro che metaforicamente imprime nell’anima del discepolo un’idea, gli dona generosamente un frammento di sé, impronta che, attraverso un nostalgico e flebile riflesso, vive nel discepolo, così sopravvivendo alla morte fisica del maestro.

Letture consigliate
Andrea Alciato, Il Libro degli Emblemi, secondo le edizioni del 1531 e del 1534, introduzione, traduzione e commento di Mino Gabriele, Adelphi, 2015.
Guido Arbizzoni, «Un nodo di parole e di cose». Storia e fortuna delle imprese, Salerno, 2002.
Giordano Bruno, Corpus iconographicum: le incisioni nelle opere a stampa, catalogo, ricostruzioni grafiche e commento di Mino Gabriele, Adelphi, 2001.
Toufic Fahd, La divination arabe: Études religieuses, socilogiques et folkloriques sur le milieu natif de l’Islam, Sindbad, 1987.
Paolo Giovio, Dialogo delle imprese militari e amorose, a cura di Maria Luisa Doglio, Bulzoni, 1978.
Giancarlo Innocenti, L’immagine significante. Studio sull’emblematica cinquecentesca, Liviana, 1981.
Warner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Bompiani, 2003.
Aurélie Névot (dir.), De l’un à l’autre. Maître et disciples, CNRS, 2013.
Cristina Noacco, Corinne Bonnet, Patrick Marot, Charalampos Orfanos (dir.), Figures du maître. De l’autorité à l’autonomie, Presses universitaires de Rennes, 2013.
T.C. Price Zimmermann, Paolo Giovio. Uno storico e la crisi italiana del XVI secolo, Lampi di Stampa, 2012.

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