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Malcolm Gladwell, scrittore e intellettuale newyorkese studioso dei meccanismi alla base dell’innovazione – indagati, fra l’altro, nel libro The Tipping Point: How Little Things Make a Big Difference (2000; trad. it. Il punto critico, 2006), che si occupa appunto del ‘punto critico’ attorno al quale agiscono e proliferano i virus del cambiamento –, identifica i ‘connettori’ quali figure centrali di un agire contemporaneo innovation oriented.
Connettori sono coloro che frequentano mondi geografici, fisici e culturali differenti; possiedono, grazie alla propria facilità di relazione, un numero esteso di conoscenze e contatti con persone fra loro assai diverse; praticano professioni creative-relazionali, nel mondo dei media, old and new, nell’area del progetto o similari. Per questo hanno le potenzialità e la possibilità di mettere in collegamento situazioni e persone lontane, e di contribuire a far scattare la scintilla dell’innovazione, determinata di frequente da associazioni inedite che aprono al ‘pensiero laterale’ oppure a transfer tecnologici, espressivi, scientifici e culturali. I connettori agiscono, in sostanza, come ganglo vitale di una rete, facilitatori di inattese relazioni e di esiti spiazzanti ma proficui.

La rete, reale o virtuale che sia, agisce in modo prestazionalmente più efficiente se contiene al suo interno agitatori, più o meno consapevoli. Il planetario successo dei social network, basati sul modello del collegamento, documenta una connessione permanente, dapprima generata (in modo deliberatamente consapevole, ma, almeno in parte, forse anche soggiacendo a ‘misteriosi’, non sempre razionali, meccanismi propagatori virali) e ora auto-alimentantesi. Il gioco infinito della ricerca definitoria/classificatoria attorno alla disciplina (ma il medesimo tormento tocca anche all’arte, alla musica, al cinema? O, più umanamente e utilmente, ci si accontenta di una fenomenologia che distingua il diverso e gerarchizzi il valore?) può quindi annoverare una nuova pertinente possibilità, adatta alla condizione contemporanea, considerando il design e i designer come connettori. E questo intendendo il progetto come strumento globale – forse fra gli ultimi con ambizioni enciclopediche – atto a sintetizzare e dare forma a conoscenze, competenze, opportunità provenienti da altri universi: società, economia, mercato, impresa, comunicazione, cultura, tecnologie produttive e via elencando. Nel momento in cui il progetto è generatore di connessioni, gli artefatti a loro volta divengono stimolatori di significati e relazioni. Un cenno meritano a questo punto le questioni del senso degli oggetti/sistemi/servizi e del loro ruolo nella società. Di fronte alla oggettiva pollution artefattuale che caratterizza la contemporaneità – comprese la ‘scoperta’ della limitatezza delle risorse planetarie e l’obbligata necessità di assumere altri punti di partenza nonché prassi per il design –, in sostanza continuano a essere marginali ed emarginate le pratiche che collegano progetto/produzione/consumo con la necessità e il valore. Insomma si produce merce (destinata a divenire in fretta rifiuto e spazzatura) in relazione a un’‘ideologia’ del mercato e dell’impresa (ora sempre più della finanza), certo oggi vincente ma in ogni caso datata e autoreferenziale rispetto alle condizioni del presente, in oggettivo affanno nell’attuale contesto globale fluido e imprevedibile, con i mutati comportamenti ed esigenze della società, dei consumatori e fruitori. Un caso emblematico è rappresentato dal declino lento e irreversibile del modello di trasporto automobilistico su gomma e del consumo su base petrolifera, pur strenuamente difeso, armi in pugno e diritti del lavoro svillaneggiati. A cavallo del millennio pare, insomma, sia venuta a mancare una necessaria riflessione sul ‘modello’ di mondo possibile. Le ideologie politiche forti sono cadute assieme ai muri; sono prevalse logiche ciniche e speculative, che ci consegnano un secolo insicuro, incerto e imprevedibile, per dirla con Joshua Cooper Ramo (The Age of the Unthinkable, 2009; trad. it. Il secolo imprevedibile, 2009).

Nel suo lucido, assieme apocalittico e utopistico, pamphlet sul futuro, Jacques Attali parla di iperdemocrazia come unica possibilità di evitare un iperconflitto destinato a consumare irreparabilmente il pianeta (Une brève histoire de l’avenir, 2006; trad. it. Breve storia del futuro, 2007). Piaccia o meno, questa è una parte del contesto all’interno del quale si attiva il fare del design. Che pone con forza la questione del senso: dell’agire, del produrre, del comunicare, del progettare.

In parte è sempre stato così, ma oggi le condizioni appaiono più stringenti e obbligate, e allo stesso tempo cariche di grandi e nuove possibilità. Certo, resta sempre l’altra strada possibile, quella della scimmietta che non vede, non sente e non parla. Porsi nella logica del significato non vuol dire uscire dal contesto, del mercato o della società, oppure essere velleitari. Piuttosto, porsi in relazione ai nuovi bisogni, ai nuovi mercati, ai consumatori evoluti, per cui da tempo si parla ormai di prosumer, ovvero di produttori-consumatori. La ‘coda lunga’ teorizzata dall’economista Chris Anderson (The Long Tail: Why the Future of Business Is Selling Less of More, 2006; trad. it. La coda lunga, 2007) a delineare le opportunità delle nicchie di mercato, anche in relazione alle potenzialità dei new media e delle new tech, è ormai una realtà consolidata. Le riflessioni contestuali fin qui condotte permettono un’appropriata collocazione e spiegazione delle situazioni in cui il progetto ha saputo essere innovativo, di frequente muovendo appunto da relazioni connessive. La parola ‘innovazione’ – da non confondere con il ‘nuovismo’ – è ormai abusata, fino allo svuotamento del suo significato. Una parola-valigia (per usare l’immagine che Enzo Mari proponeva proprio per il design, a indicare un contenitore dove ognuno mette un po’ quello che gli pare, e si tratta spesso di cose assai diverse!), che può tornare ad arricchirsi di valore a patto di precisarla e aggettivarla.

Per parlare, ad esempio, di innovazione tecnologica, tipologica, funzionale, produttiva oppure estetica. I contesti più significativi e degni di ricerca gravitano attorno ad aree problematiche per l’intero pianeta e i suoi abitanti: a cominciare dalla sostenibilità ambientale per finire all’usabilità, alla possibilità per tutti di utilizzare al meglio gli artefatti ad uso individuale o collettivo. Il design e i progettisti contribuiscono ad affrontare in maniera responsabile tali questioni, puntando all’innovazione di approcci e risultati, proprio perché possono divenire il centro di una rete di collegamenti provenienti dai ‘mondi’ frequentati, scoperti e contattati, immaginati. Non stupisce allora che un terreno fra i più fertili dove praticare la disciplina sia stato quello degli artefatti tecnologici, che hanno grande appeal e rilevanza nella vita quotidiana, nella cultura, nella società e, di conseguenza, nel mercato dei consumi.

Valida testimonianza in questa direzione è fornita – solo per fare il ‘solito’ esempio – dall’impatto nell’immaginario collettivo (oltre che dal successo economico) degli oggetti human driven innovation di Apple, attenti all’interazione, con elevata affordance e buon disegno, facilitatori nell’impiego di tecnologie e ancora in grado di aprire concretamente, in prodotti di massa, nuovi scenari di intuitiva modalità d’interazione tattile, di touch usability; collegati, insomma, a un’idea di ‘tecnologia calma’, non ostentativa e iperprestazionale, come quella ancora spesso proposta seguendo logiche distanti dalle reali esigenze degli utilizzatori, oltre che fuorvianti rispetto al riconoscimento di un appropriato ruolo del design. Che è tale, per dirlo con Giovanni Klaus Koenig, «solo quando agiscono forti interazioni fra scoperta scientifica, applicazione tecnologica, buon disegno ed effetto sociale positivo» (G.K. Koenig, Design: rivoluzione, evoluzione o involuzione?, «Ottagono», 68, 1983).

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