SCARTI E ABBANDONI

Spazi e luoghi
Ragionare attorno al tema di quando l’abbandono dello spazio costruito, organizzato e vissuto dall’uomo abbia assunto un significato negativo di perdita irrimediabile di una delle dimensioni più intime e vitali dell’uomo, quella dell’insediarsi e abitare, pone alcune questioni di fondo per chi si occupa di territorio. Infatti temi fondamentali quali l’insediamento, il popolamento, il paesaggio costituiscono alcuni aspetti portanti del rapporto uomo e territorio che possono essere indagati dal punto di vista della mobilità, alla quale è strettamente legato anche l’abbandono.

Se ripercorriamo infatti la storia dell’insediamento umano vediamo che fin dall’inizio la propensione alla mobilità, ereditata dal sapiens sapiens, ha mosso la ricerca di nuovi spazi da colonizzare; lo spostamento e quindi l’abbandono del luogo precedentemente occupato era nell’ordine delle cose: l’uomo nomade, cacciatore e raccoglitore, doveva muoversi per realizzare il suo progetto esistenziale. E abbandonare i luoghi era una tappa obbligata, naturale del processo. Ancora oggi le poche popolazioni che praticano il nomadismo in Africa, in Asia o nelle lande delimitate dal circolo polare artico, riproducono situazioni antiche ed affascinano per il particolare significato che danno all’abitare, ma più in generale al rapporto con lo spazio che è uno spazio aperto, non delimitato da puntuali confini fisici, con tutto quello che ciò comporta. E ancora il nomadismo, a noi più vicino, pur oggi radicalmente cambiato nei modelli, nei tempi e nei riti, delle popolazioni rom ci crea difficoltà nell’accettarlo e molto spesso le risposte date sono quelle della loro chiusura entro ‘campi nomadi’ (contraddizione esplicita di uno spazio a cui si applica una etichetta di nomade!) ben individuabili e circoscrivibili. Ma oggi dobbiamo confrontarci anche con l’altra nostra propensione, ormai più sedimentata, alla sedentarietà, che ci condiziona talvolta nel recepire e nel comprendere chi si muove o chi ha categorie spaziali diverse riguardo il vivere, l’abitare, lo spostarsi, e in qualche occasione ci impone un evidente rifiuto. Basti pensare solo, ad esempio, all’atteggiamento della nostra società nei confronti delle nuove migrazioni, di chi è ‘senza fissa dimora’ per scelta o per necessità e viaggia senza prospettive di ritorno.

E allora, riprendendo il discorso iniziale, la percezione dell’abbandono ha assunto connotazioni diverse a seconda dell’intersecarsi della propensione allo spostamento con quella alla stabilità, dinamiche queste che di fatto hanno trasformato lo spazio in luogo, dando a questo termine il significato più ampio di spazio vissuto ed organizzato. Lo spazio così ha acquistato un ruolo fondamentale nella strategia esistenziale dell’uomo, che lo ha organizzato, gli ha dato un nome – quante cose ci aiuta a capire e a spiegare la toponomastica! – lo ha caricato di significati che vanno ben oltre la dimensione più propriamente funzionale, lo ha investito di una identità che poi è diventata senso di appartenenza. Lo spazio cessa così di essere solo quinta, scenario naturale delle vicende umane, diventa territorio vissuto, partecipato, identitario con caratteristiche originali, uniche, talvolta irripetibili e non riproducibili. Ma non solo, i luoghi così percepiti ed interiorizzati diventano momento di costruzione dinamica della società, di una civiltà il cui orizzonte territoriale è formato da campi, da strade, da villaggi, da borghi, da città; territorio dove le primitive dimore diventano abitazioni, case, palazzi, ville e i luoghi simbolici chiese, monumenti… Lo spazio aperto diventa spazio chiuso, delimitato da confini, diventa territorio di appartenenza e poi ancora diventa paesaggio, un paesaggio speciale, quel paesaggio culturale risultato della costante interazione tra l’uomo e l’ambiente naturale. E questo processo, talvolta spontaneo, talvolta frutto di un preciso disegno e progetto, genera quella varietà di paesaggi che segnano il volto del pianeta, diversi a seconda delle civiltà, delle culture, delle storie individuali e collettive, dei modelli economici, ma anche della forma e della sostanza della terra: aspra, fertile, ricca o povera d’acqua o di vegetazione, e pronta a modificare repentinamente quello che l’uomo ha costruito.

Oggi la varietà dei luoghi è forse uno degli aspetti più emblematici della nostra società, anche perché questi sono sempre più visitati, usati ed esibiti come merce da vendere, e spesso seguono anch’essi la logica feroce del mercato: domanda ed offerta! E così il nostro vivere quotidiano unisce in un unico grande scenario globale deserti e montagne himalayane, metropoli verticali e borghi di antiche pietre, villaggi di capanne e reticoli di strade campestri, periferie di villette a schiera e ville hollywoodiane. Il paesaggio da semplice si è fatto complesso, articolato, e i luoghi talvolta perdono di significato e di valore di fronte a logiche e dinamiche molto lontane da quelle che li avevano originati e sviluppati, sorretti da criteri funzionali e razionali, ma anche emozionali.
E l’abbandono, in questa nuova dimensione, si fa strada. Un abbandono diverso a seconda del senso e del contenuto del luogo stesso: un’area industriale degradata e dismessa, un centro montano in alta quota, un villaggio dell’area siccitosa sub sahariana, un pascolo ed un terrazzamento, un villaggio di minatori. Sensi e significati diversi…
Non c’è più in questi abbandoni la dimensione positiva del processo innovativo; domina piuttosto quella negativa del senso di perdita, di degrado e talvolta di morte. I luoghi abbandonati diventano paesi fantasma, senza anima e vita, in un intreccio strano e affascinante di morte, ma anche (se la prospettiva, ad esempio degli spazi naturali, è quella della rinaturalizzazione), di un senso ambiguo e mitizzato di rinascita o di ripresa. Per l’uomo contemporaneo, efficiente, economicamente evoluto, immerso più o meno consapevolmente nel mondo della comunicazione e dell’immagine è faticoso fare sua l’idea di questi abbandoni, e così li respinge, li allontana. Anche il paesaggio, il luogo, l’abitare devono corrispondere a canoni ben precisi, tipici di una società ormai globalizzata e legata ad un senso dei luoghi standardizzato e formulato sulle basi di un consumismo effimero e sulla mancanza di identità, memoria storica e spazialità condivise. Oggi i luoghi, come direbbe Marc Augé, sono sempre più dei non luoghi, in cui importante è l’apparire e non l’essere e nei quali non esistono relazioni né spaziali né temporali con il territorio circostante.
Così nel nostro immaginario quotidiano si è fatta strada una geografia degli spazi dell’abbandono, del non ritorno, del degrado. Spazi e luoghi legati e connessi ad alcune aree geografiche talvolta ben definite, altre volte più sfumate e generiche dove le situazioni di abbandono convivono con situazioni di forte radicamento e presenza: in ambito urbano i quartieri abbandonati, le zone industriali dismesse, i centri storici vuoti e deserti; a scala più ampia i centri, i paesi, le valli, le regioni del greve abbandono e dello spopolamento.

Via dai margini
Riconducendo il discorso ad ambito spaziale a noi noto, una di queste aeree e forse la più emblematica è sicuramente la montagna, che presenta e riassume in sé il significato più complesso dell’abbandono e tutte le contraddizioni ad esso connesse. La montagna infatti è forte sinonimo di luogo identitario, è luogo in cui il senso di appartenenza si è sviluppato maggiormente, ma è anche il luogo in cui i processi di abbandono sono più evidenti e più laceranti, dove i villaggi fantasma diventano spesso una costante assieme agli spazi incolti e ai terreni abbandonati. Le Alpi, ma soprattutto l’Appennino – bisognerebbe parlarne di più e più spesso – portano le stimmate dell’abbandono: il crollo di una civiltà faticosamente segnata dall’originale rapporto dell’uomo con le risorse fatte di boschi, di prati, di pascoli, di pietre, di acqua e di intelligenze.

In montagna l’uomo è arrivato abbandonando la pianura e i luoghi malsani e paludosi, spinto dalla ricerca di nuove possibilità di vita e sulle piste degli animali selvatici, ma forse, mi piace pensarlo, attratto anche dalla maestosità dei luoghi e dalle ricchezze, in termini di risorse, che la natura metteva a disposizione ed anche da un bisogno di sicurezza che gli ampi spazi planiziali non fornivano (Ötzi ne è una testimonianza affascinante che deve essere sicuramente conosciuta e vissuta!). Faticosamente e lentamente ha disboscato, ha creato radure, ha costruito villaggi, stalle, fienili, ha terrazzato i pendii, ha messo a coltura terreni quasi verticali, ha costruito sentieri, strade, passi e passaggi che hanno messo in contatto mondi e culture diverse, ha regimentato i corsi d’acqua, ha costruito dighe e sbarramenti, ha elevato sacelli, chiese e cappelle, ha progressivamente colonizzato lo spazio in verticale mettendo a punto il modello economico, ma non solo, agro-silvo-pastorale che ha caratterizzato la civiltà alpina fino a metà del secolo scorso. Lo spazio era pervaso da una esigenza suggerita da una sorte di horror vacui: nulla poteva e doveva restare inutilizzato. Ed ecco quindi il riaffiorare di antiche radici, mai dimenticate, nella transumanza, funzionale abbandono temporaneo del fondo valle per sfruttare in quota i pingui prati stabili delle malghe e degli alpeggi; nella giustapposizione tra proprietà privata, vicino ai villaggi e di proprietà comune di boschi e pascoli; nella inesauribile ricerca di originali soluzioni tecniche per fronteggiare le difficoltà del territorio. Una montagna ricca e popolata che per secoli, pur con ciclici momenti di maggior popolamento contrapposti ad altri di spostamenti e migrazioni, ha rappresentato un elemento forte nella storia dello spazio europeo e che ora invece è emblema forte dell’idea di abbandono.

Alcuni dati significativi, riferiti alla montagna friulana, ci possono aiutare a comprendere meglio: tra il 1921 ed il 1951 la popolazione montana si riduce dello 0,4% annuo, tra il 1951 ed il 1961 dell’1%, e tra il 1961 ed il 1971 del 2,1%. Complessivamente nel ventennio 1951-1971 la montagna perde il 26% della popolazione e nel decennio successivo (1971-1981) tale trend continua con un ulteriore 4,8%; e tale processo, pur attenuato, segna anche i giorni nostri. Per esemplificare ulteriormente questo vero e proprio esodo, altre cifre: alcuni comuni delle Valli del Natisone come Drenchia e Stregna hanno perso a partire dagli anni ’50 oltre l’80% della popolazione e così Taipana e Lusevera nelle Valli del Torre hanno superato il 70%; nel Canal del Ferro, Dogna, Resia e Chiusaforte si attestano a valori vicini al 70%. Anche la Carnia ha pagato il suo tributo in termini di spopolamento, specie nei comuni più elevati che vedono partire oltre il 60% della popolazione. Sui valori delle Valli del Natisone si collocano i comuni della pedemontana occidentale della montagna friulana come Tramonti, Vito d’Asio, Clauzetto, Barcis, Frisanco, Andreis, Erto e Casso. E chi resta è vecchio, è soprattutto donna. La società presenta tassi di natalità vicini allo zero, un saldo naturale fortemente negativo ed un degrado sociale molto pronunciato. Infatti con il partire della popolazione chiudono i punti di riferimento delle comunità: le scuole, le osterie, i negozi, le parrocchie, i servizi di base, abbassando fortemente le soglie di una dignitosa qualità della vita. Ma lo spopolamento ha provocato anche un vero tracollo del modello economico con il crollo degli addetti all’agricoltura, collegato ad un costante impoverimento del patrimonio zootecnico e delle superfici coltivate. Partono gli uomini, chiudono le stalle, si abbandonano i terreni e avanza il bosco. È questa la dinamica che la montagna sta vivendo.

Ma, nella nostra prospettiva di lettura, abbandonare un luogo che si conosce, a cui si è dato un nome, che si vive come proprio è molto gravoso, pur mitigato da una speranza di miglioramento della qualità della vita, di un progetto e percorso esistenziale migliore. E questo è ancora più difficile in comunità dove l’identità ed il senso di appartenenza sono particolarmente radicati in quanto generati spesso dal fatto di essere vissuti ai margini, o di appartenere a particolari ed originali gruppi umani con proprie peculiarità.
Si abbandonano prima i centri in quota (il noto fenomeno dello scivolamento a valle), poi quelli più faticosi a raggiungere, poi il fondovalle stesso, per andare a creare nuove periferie urbane che raccolgono anche l’abbandono dei centri. Lo scivolamento a valle dei centri in quota, prima tappa dello spopolamento, si manifesta non solo perché entrano in crisi l’agricoltura, l’allevamento, il lavoro in bosco, ma anche perché – in termini di qualità della vita – non è rispettata l’equità tra montanari ed abitanti del fondovalle e della pianura. Le strade, nate per collegare, per accorciare la distanza fisica e sociale dei centri in quota, diventano invece occasione per meglio scendere a valle, lasciare la montagna, accelerare e facilitare l’abbandono.

Ecco un primo snodo importante e suggestivo di riflessione: l’identità, l’appartenenza, il senso dei luoghi non è sufficiente per restare, servono altre motivazioni e tra queste va considerata una nuova dimensione, non sempre esplorata nelle ricerche sull’abbandono: quella della qualità della vita, intesa nella più ampia accezione del termine. Qualità della vita che vuol dire collegamenti, strade, luoghi commerciali, ma anche luoghi per l’istruzione, per i servizi sanitari, luoghi culturali, sportivi, ricreativi e di aggregazione. A fronte di una situazione generale di deprivamento, la risposta che generalmente viene data è l’implementazione di nuovi servizi, ma non per i montanari, bensì per i nuovi abitanti della montagna: i turisti. Ancora una volta la direzione s’inverte, la visuale stranamente si rovescia, i bisogni da soddisfare non sono quelli dei montanari, ma quelli degli abitanti della pianura e dei centri forti che colonizzano, quasi ripetendo antichi modelli, le vallate alpine. Ma sul turismo e sullo sviluppo turistico dei centri marginali e montani si innescano altre questioni, altri temi affascinanti di ricerca nei quali le dinamiche economiche si intrecciano strettamente alle scelte individuali e personali, che stanno alla base dei processi evolutivi in corso nei territori montani.

Via dai centri

Se l’abbandono delle aree e degli spazi periferici può sembrare ovvio ed alimenta facilmente la nostra idea stereotipata di abbandono, più complesso è quello dei centri, specie se affidiamo a questo termine un significato più urbano. Infatti è ancora fortemente radicata l’idea che la città e gli spazi urbani sono forti attrattori di popolazione, luoghi che coinvolgono nel loro processo di esplosione flussi ingenti di popolazioni, specie nei paesi più poveri o quelli chiamati, con un eufemismo, in via di sviluppo. Ci sono degli Stati in Africa, America Latina e Asia dove la sola capitale raccoglie il 90% della popolazione dell’intera nazione dando vita a megalopoli caratterizzate da enormi periferie di bidonvilles e baraccopoli. Centri che hanno fatto della concentrazione spaziale la loro forza, ma anche la loro debolezza, città in cui la qualità della vita è relegata a dimensioni di estrema povertà, dove l’abbandono delle campagne si è rivelato una trappola che prevede ulteriori abbandoni che alimentano i flussi migratori verso i paesi ricchi.
Contemporaneamente nelle città della Vecchia Europa e dell’America anglosassone si manifestano fenomeni opposti, caratterizzati da forti dinamiche di disurbanizzazione che hanno portato e portano a svuotare i centri direzionali e storici verso periferie che assumono sempre di più i connotati di ‘campi profughi’ dell’abbandono, dove si mescolano in una sorta di novello melting pot, cittadini, contadini inurbati, montanari, immigrati. Un processo che ha favorito ed alimentato, ma in alcuni casi anche generato, lo spostamento all’esterno dei centri non solo delle funzioni dell’abitare, ma anche quelle ad esso connesse, quali le funzioni commerciali, dell’approvvigionamento e del tempo libero. I centri commerciali proliferano e assumono sempre più funzioni totalizzanti che vanno ben oltre le attribuzioni originarie, proponendo nei complessi di ultima generazione non solo la ristorazione, lo spettacolo, il gioco, oltre che l’acquisto, ma anche l’ospitalità: nuovi centri? nuove periferie? nuovi luoghi di abbandono, almeno temporanei?

I modelli spaziali geografici hanno messo in luce che esiste un ciclo di vita delle città e che a fasi di abbandono dei centri corrispondono, dopo una serie di fasi successive che prevedono la crescita delle periferie, un ritorno nei centri. Modelli che possono essere applicati a scala più ampia e che forse permettono di inquadrare i termini dell’abbandono e del ripopolamento in cicli più ampi, più dilatati, meno legati a fattori contingenti e più correlati a dinamiche globali, quali ad esempio l’espansione demografica e i flussi migratori.

Una provocazione finale
In questa direzione il quadro complesso ed articolato dei centri e delle aree marginali presenta luci ed ombre, dinamiche attive di spopolamento e di abbandono a fronte di alcune stabilità, se non inversioni di tendenza, generate da flussi immigratori recenti che veicolano popolazioni nuove, diverse, lontane ad occupare gli spazi abbandonati. C’è quindi in Italia una situazione inedita, per ora puntiforme, quasi silenziosa e nascosta, che vede uomini, donne, bambini provenienti da India, Marocco, Albania, Bangladesh, Cina, Ghana e da tanti altri paesi occupare non solo gli spazi, ma anche le attività e i saperi dimenticati dalle popolazioni locali e ripopolare lentamente casolari, abitazioni, centri e località segnate dall’abbandono. Questi spazi si fanno quindi laboratorio di culture, scambi, contraddizioni, dai quali potranno nascere soluzioni nuove, che integrino processi di valorizzazione di ambienti, di saperi antichi e recenti, ma anche diversi, per dare una nuova fiducia a chi ha deciso che vivere nei luoghi posti ai margini, nel senso più dilatato del termine, non solo è possibile, ma può anche diventare scelta consapevole e attivare nuovi processi di organizzazione e costruzione dello spazio vissuto.

Una ultima postilla
Ahimé, lo spazio della rivista non permette ulteriori digressioni, ma quanto stimolante sarebbe il tema degli spazi abbandonati per le catastrofi naturali o provocate dall’uomo, con i relativi processi di rioccupazione e ricostruzione dei luoghi: il terremoto del Friuli del 1976, il Belice, Seveso, le Torri Gemelle, lo tsunami in Thailandia, New Orleans…, solo per citare alcuni luoghi; alla prossima!

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