SENSO

Ci sono mille motivi per augurarci un mondo più giusto, la fine di innumerevoli forme di disuguaglianza, la messa al bando di violenze che lacerano le comunità. Un libro, un film, alle volte riescono a farci credere che ce la potremmo fare.

Avevo dieci anni quando la domenica al cinema guardavo con trepidazione le vicende del mio eroe. Sullo schermo correvano scene di furenti battaglie aeree della seconda guerra mondiale e se lui rientrava illeso alla base dopo aver bombardato una città tedesca, fino a raderla al suolo, mi sembrava che fosse buona e giusta questa storia. Poi è venuto Humphrey Bogart in Casablanca, con quella battuta detta in un aeroporto al buio, senza punti di riferimento mentre abbandona Ingrid Bergman: «[…] i problemi di tre piccole persone come noi non contano in questa immensa tragedia». Ecco, quelle quattro parole avevano funzionato più del mio sussidiario, più dei film di propaganda che la cinematografia americana aveva messo in giro nel dopoguerra. Mi era balenata l’idea di una sproporzione tra la guerra e la vita. Poi, dopo tanti libri e film, buoni e meno buoni, è arrivato Roberto Benigni con il suo capolavoro La vita è bella a parlarmi ancora di questa sproporzione, dimostrando che solo un paradosso poetico poteva collocarla nel discorso contemporaneo, tanto è profondo il baratro su cui si affacciano le vite ogni volta che gli uomini e gli Stati sragionano. Provare felicità, creare vita attraverso la deformazione della realtà di un campo di sterminio, che cosa si poteva dire di più sul piano umano? Mi sentivo insomma a metà strada, tra i sopravvissuti e la mia generazione, che di quei disastri non poteva che registrare la sproporzionata portata. David Bidussa, nel suo libro Dopo l’ultimo testimone (2009), parla del vuoto che inevitabilmente si viene a creare quando scompaiono i sopravvissuti lasciandoci il loro racconto. Che cosa succede in questo vuoto? Succede che lo riempiamo con azioni personali o pubbliche, con narrazioni, spiegazioni, oggetti, luoghi simbolici, luoghi reali. Il punto è che proprio in questo spazio vuoto si fa strada il senso comune della storia, che prende forma dalle cose che vogliamo trattenere dell’esperienza del passato. Prendiamo gesti semplici. In un piccolo cimitero a Brazzano di Cormòns per molti anni il 4 novembre Toni ha messo un fiore ai piedi delle numerosi croci dei caduti dell’esercito italiano e austro-ungarico che vi sono sepolti. A Brazzano c’era un campo di prigionia dove i soldati morivano come mosche. Sua nonna aveva cercato tante volte di passare a questi poveretti, tra il filo spinato, qualche pezzo di pane per ‘morire di meno’, meno soli. È un rituale privato che parla della consapevolezza che l’identità di un luogo non sfugge alla storia, soprattutto quando accettiamo di entrare nel cerchio del racconto e della testimonianza. Che i luoghi dove abitiamo non siano neutri, sordi, smemorati lo pensa anche lo scultore tedesco Gunter Demnig con le sue ‘pietre d’inciampo’, quei sanpietrini dorati che da tempo inserisce nei marciapiedi di tante città europee.
A Roma, dove li troviamo davanti a portoni di case da cui sono stati trascinati via gli ebrei durante i rastrellamenti, queste piccole sculture fanno ‘inciampare’ i passanti nei nomi di donne, uomini, bambini le cui vite sono state spezzate. Non è diverso il ragionamento di Paolo Rumiz e della storica Marina Rossi in Come cavalli che dormono in piedi (2014).
Il loro è un pellegrinaggio nei cimiteri dei caduti della Grande Guerra disseminati in tutta Europa. Due testimoni costruiti attraverso la scrittura, certo arrivati troppo tardi sul fronte dove hanno combattuto nonni e bisnonni, ma non così tardi. E allora ecco la domanda che formula Rumiz di rimando: è possibile spiegare la crisi del 2014 senza vedere i cimiteri del 1914, senza vedere l’alternativa di scelta che ci troviamo sempre davanti tra massacro e coabitazione? È quello che intuisce anche un ragazzo italiano alla East Side Gallery di Berlino, quando guarda i resti del Muro rivestito di graffiti e ne percepisce il fantasma che fino a poco tempo fa ha invaso le case togliendo il piacere di vivere da persone libere. Certo, narrazioni, raffigurazioni che trasformano i luoghi in simboli dove l’arte, ossia la lingua meno retorica e scontata di cui disponiamo, sembra la più adatta a trasformare la melma che entra dal passato. Ma i luoghi possono costruire il senso comune della storia anche passando per un’altra strada: quella della memoria pubblica che in genere entra nello spazio vuoto di cui ci parla Bidussa per dare una spiegazione e radicare significati nel presente. Ogni Stato europeo ha la sua geografia di monumenti, ma qui interessa vedere che cosa precede, che cosa avviene prima che un luogo diventi monumento. Prendiamo un esempio. In Friuli, presso Canebola, un paesino di mezza montagna tra aree di prati e di bosco, alla malga di Porzûs da molti anni si celebra la memoria di un eccidio. Il 7 febbraio 1945 da qui iniziò una caccia all’uomo in cui persero la vita diciassette partigiani delle formazioni Osoppo, uccisi dai compagni dei GAP collegati alle formazioni Garibaldi e aderenti al IX Korpus jugoslavo. Il luogo è da oltre trent’anni un caso nella storia della Resistenza al confine orientale. Gli eredi degli osovani hanno sempre rivendicato una verità che riscatti le vittime dalle accuse di tradimento mosse dai gappisti per far emergere invece le tensioni interne al movimento resistenziale sulla costruzione di un’Italia libera. L’ANPI, associazione che difende una tradizione resistenziale radicata nel ruolo del Partito Comunista Italiano, ha più volte respinto questa impostazione per dare un’altra versione sui fatti e sui mandanti. Per altro anche tra gli storici locali la questione è stata a lungo dibattuta e solo di recente la storiografia ha allargato il contesto di analisi agli effetti di lunga durata toccando gli anni della guerra fredda, della strategia della tensione. Non c’è luogo migliore per capire quanto sia complesso fare i conti con il passato se la storia è un codice ancora aperto e i protagonisti stanno aspettando di passare il testimone. Per questo ci pare molto interessante il gesto compiuto nell’agosto 2001 da due novantenni che hanno voluto spostare il paradigma del rapporto passato/presente aprendo la strada ad un’altra soluzione. Il partigiano Giovanni Padoan, commissario della divisione Garibaldi-Natisone ai tempi dell’eccidio, e don Redento Bello, cappellano della Osoppo, dopo un breve discorso di ammissione di responsabilità a Porzûs semplicemente si sono abbracciati. Qual è il senso comune della storia espresso da questi due anziani? Reinventare i modi del ricordo per non cristallizzare i torti e le accuse e liberare così le potenzialità del presente. Da tempo, infatti, la storiografia del Novecento ci ha messo davanti a un oggetto scomodo, la violenza ideologica, da ammettere e riconoscere come possibilità storica. Porzûs ne è un documento, perché non accettarlo come prova? Forse sarà difficile per le istituzioni dare forma condivisa a questo luogo e chiudere il cerchio delle memorie contese. Hanna Harendt ci ha tuttavia insegnato che, se la posta in gioco è davvero alta, i luoghi aperti ai discorsi attivi ci mettono a riparo dalla retorica delle obbligate riconciliazioni e dalla tentazione di usare la storia in maniera grossolana. E anche questo è senso comune della storia.

multiverso

14