SENSO

Senso è, tra l’altro, un film capolavoro di Luchino Visconti, uscito nel 1954. Un amore passionale e destinato a un esito tragico tra una nobildonna italiana e un ufficiale austriaco, conosciuto a teatro (la musica è quella del Trovatore di Giuseppe Verdi). Sullo sfondo della terza guerra di indipendenza. Finita male, per gli italiani-piemontesi, a Custoza. I desideri travolgenti dei protagonisti sono dissonanti rispetto alla (possibile) etica del contesto storico. La donna ha un vecchio marito fedele all’Impero asburgico, ma un cugino che è un fervente patriota. Oscilla tra l’ammirazione verso chi lotta per la libertà e l’indipendenza nazionale, e l’amore folle per chi incarna il ‘nemico’. Vincerà la passione dei sensi. E sarà la morte fisica per l’amato e morale per l’amante.

Perché ricordare quel film? Per farci riflettere, intanto, sulla pluralità dei significati della parola ‘senso’. Le cose di cui siamo testimoni hanno un ‘senso’? Che cosa percepiamo realmente di esse grazie ai nostri cinque sensi? (E chissà che in realtà non siano di più: qualcuno sembra dotato di quel famoso, inquietante ma invidiabile ‘sesto senso’). Un uomo avveduto si produce in comportamenti ‘sensati’. Tuttavia, dei sensi forse è meglio non fidarsi troppo, e soprattutto non esserne schiavi. Esistono anche oggetti ed esseri abbastanza ripugnanti, che ci fanno ‘senso’.

L’uscita del film di Visconti fu un evento culturale e politico abbastanza ‘sensazionale’. Doveva intitolarsi Custoza. Ma alla censura quel titolo apparve troppo disfattista. (Molto più bello, comunque, il secondo titolo trovato per accontentare il censore…). Come troppo spinte furono considerate diverse scene erotiche, in buona parte tagliate. Il film non fu premiato a Venezia e questo suscitò polemiche.

Rivederlo e ripensarci oggi offre la possibilità di sovrapporre piani storici diversi. Una interpretazione provocatoria del Risorgimento, che mette sotto scandaglio critico quella borghesia che ne fu protagonista (col senno di poi di un sontuoso intellettuale comunista). Una ricchezza, una complessità e una libertà estetica e culturale che anticipano le rivoluzioni degli anni ’60. (Ho sotto gli occhi una intervista a Charlotte Rampling, che sugli anni ’60 dice: «È stato un momento di grande libertà. Era tutto realmente possibile. Ovvio che non potesse durare». Attrice poi prediletta da Visconti, soprattutto per l’intensità del suo ‘sguardo’).

Ho abbastanza anni anch’io da aver potuto ‘guardare’ quel momento, e ricordare come le nostre azioni, i nostri sentimenti, le relazioni che cercavamo con altri e altre ci sembrassero piene di ‘senso’. Le nostre vite andavano a tempo con una certa direzione della storia (almeno così credevamo): politica, ragione, desiderio, libertà. Una danza a tratti convulsa, ma il ritmo teneva.

Poi le cose sono degenerate, e sono finite. «Ovvio che non potesse durare».

In realtà, sono alcuni decenni che si parla – ci si parla un po’ addosso, direi – della ‘crisi di senso’ in cui siamo immersi. Ultimamente, dopo l’improvvisa comparsa di un macabro ‘Stato Islamico’, o ‘Califfato’, dall’altra parte del nostro mare, e dopo la strage che in nome di quel simbolo è stata compiuta nella redazione di «Charlie Hebdo», questa ‘crisi di senso’ viene declinata molto volentieri nella versione di un ennesimo ‘tramonto dell’Occidente’. Massimo Cacciari scrive sull’«Espresso», citando il cardinale Carlo Maria Martini, che l’Occidente deve sapersi mettere in discussione, se vuole dialogare con un Islam che non può essere fatto coincidere con il terrorismo dell’IS. Giuliano Ferrara gli risponde che no, bisogna reagire con una ‘apologetica’ che vuol dire «sicurezza di sé, spazio pubblico aperto al tuo Dio nella tua società, spazio alla tua difesa identitaria, alla certezza incrollabile dei tuoi dogmi rivelati e della tua dottrina intorno alla persona umana e ai suoi diritti imprescrittibili».

Ci sono però altri modi per non rinunciare al senso delle proprie tradizioni. Consiglio la lettura dei discorsi ai neolaureati e neolaureate delle Università americane di Kurt Vonnegut, recentemente pubblicati da Minimum fax (Quando siete felici, fateci caso). Per esempio la semplicità con cui lui, ‘ateo umanista’, condanna il principio del Codice di Hammurabi e del Vecchio Testamento riassunto nell’espressione «occhio per occhio, dente per dente» (alla base di ogni guerra, come di ogni film di cowboy o di gangster), e ripropone le due frasi di Gesù: «Perdonali, Padre, perché non sanno quello che fanno», e «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Oppure il ‘discorso della montagna’, che nessuno – lamenta – appende nelle aule scolastiche al posto dei dieci comandamenti.

Tutte queste citazioni mi portano a chiudere riflettendo ancora un momento sulla parola che deriva da senso, ovvero ‘sensibilità’.

Soprattutto per noi maschi, forse ora non più ma ancora non molto tempo fa di certo, era un termine sospetto e insidioso. No caro, così non va. Sei troppo ‘sensibile’. Addirittura ‘ipersensibile’. Non puoi comportarti da femminuccia. Stringi i denti e vai avanti! Sii uomo!

Invece bisogna sapersi fermare, smettere di digrignare incisivi e molari, e provare a riflettere con un po’ di calma, senza rimuovere il nostro corpo. Ecco la definizione che mi azzarderei a dare di ‘sensibilità’: un pensiero, una intelligenza delle cose e delle persone, che cerca di fidarsi dei sensi che il corpo ci offre. Certo, non accontentandosi precipitosamente di stimolanti ma forse superficiali sensazioni. Ma stando ben attenti a non credere di poter risolvere i nostri difficili problemi cognitivi ed etici sostituendole con astrazioni. O, peggio, ignorando i sentimenti.

Ora non pretendo di spiegarlo perché ho già scritto troppo (e poi non sono affatto sicuro che lo saprei fare in modo convincente), ma suggerisco di considerare l’ipotesi che si tratti di qualcosa che dovremmo provare a imparare soprattutto dalle donne. E dagli uomini che si trovassero d’accordo con noi su questo non trascurabile punto.

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