SENSO

Che cos’è, oggi, l’esperienza e che rapporto c’è, nel nostro tempo, tra filosofia ed esperienza e tra esperienza e coscienza?

Provo a rispondere.

Cominciamo dall’‘oggi’. Cosa si intende, filosoficamente parlando, con quel deittico?

Non ci sono molti dubbi in proposito. ‘Oggi’ vuol dire il tempo della crisi e, dunque, il tempo della critica e delle decisioni. Crisi del senso, innanzitutto, crisi dell’orientamento nello spazio e nel tempo dell’esperienza.

Si sente l’urgenza di una decisione, perché il mondo tramandato non tiene, ma non si sa come agire: di qui paralisi, impotenza e risentimento. È un ‘oggi’ cronologicamente assai dilatato quello sul quale ci si interroga. Si estende all’insieme della modernità.

Ha il suo culmine nella filosofia di Nietzsche e nella celeberrima sentenza «Dio è morto», di cui l’insieme della filosofia contemporanea costituisce una sola interminabile esegesi. Non c’è da aggiungere nulla a quanto è stato detto in proposito. Il Dio che è venuto meno, abbandonando l’uomo alla sua solitudine, è il fondamento dell’esperienza, il suo garante trascendente. Possiamo rappresentarci la situazione in cui è precipitata l’esperienza, ‘oggi’, con un piano che bascula perché privo di un sicuro appoggio. Qualsiasi oggetto posto sulla sua superficie è instabile, sempre sul punto di cadere. Platone aveva impiegato il verbo epamphoterizein per indicare lo statuto contingente dell’ente, oscillante fra l’essere il nulla. Duemilacinquecento anni dopo, Emanuele Severino ha fatto di quel verbo il destino dell’Occidente.

L’Occidente è veramente la terra del tramonto perché se una cosa, qualsiasi cosa, guadagna il suo essere trionfando momentaneamente sul nulla, inevitabilmente vi dovrà infine ritornare. Anzi, quel nulla non lo ha mai veramente abbandonato. La sua provvisoria consistenza ontologica è solo una ‘vittoria di Pirro’. La guerra sarà vinta dal non essere che è il solo ‘Signore’ di questo mondo. L’‘oggi’, come si suole ripetere con una formula divenuta luogo comune (ma non per questo meno vera), è il tempo del nichilismo.

Che cos’è allora, oggi, esperienza? La risposta è: inconsistenza. L’esperienza non consiste. Non ha in se stessa la ragione del suo essere. Questo è vero non solo dell’‘oggi’, ma dell’intera stagione denominata ‘metafisica’. I grandi filosofi del Novecento sono stati unanimi nel ritrovare l’origine dell’‘oggi’ nello ‘ieri’ della filosofia greca. Si è citato Severino, ma qualsiasi apprendista filosofo sa bene che Martin Heidegger radica nella metafisica greca l’inizio dell’‘oblio dell’essere’. E la stessa cosa può dirsi anche del suo maestro Edmund Husserl. È in terra greca che, secondo il fondatore del metodo fenomenologico, il senso dell’esperienza è andato oggettivandosi, alienandosi e feticizzandosi in una costellazione di segni manipolabili tecnicamente ma vuoti di immediato significato intuitivo. Tuttavia, lo specifico dell’‘oggi’ è il venir meno di quel fondamento trascendente che, per quanto prodotto da quella stessa alienazione, contribuiva a rendere fermo il piano dell’esperienza. Il Dio della metafisica è infatti tanto il portato del nulla che affetta l’ente esperito, facendolo oscillare, quanto il suo sostegno ideologico. Dall’inconsistenza dell’esperienza Dio deriva come un postulato, come qualcosa che l’intelletto deve porre come vero per spiegare l’esperienza, per rendere ragione del suo ‘fatto’. Dell’inconsistenza dell’esperienza Dio è però anche il farmaco, è il rimedio della precarietà ontologica dell’esistere. Severino ha ragione nell’affermare che comunque il vero dato immediato della metafisica e della teologia è sempre stato l’oscillare dell’ente. Oggi, nel tempo della crisi e della critica, questo Dio razionale – e, con lui, tutte le maschere che ha storicamente assunto (gli assoluti metafisici) – è venuto meno. Resta l’esperienza da sola, abbandonata alla sua indeterminazione di principio. Se poi trionfano i fondamentalismi è perché il solo Dio possibile, in un contesto nichilistico, è un Dio irrazionale, partorito dalla cieca volontà di credere, ed una tale volontà ha come esclusiva unità di misura la quantità di sangue che è disposta a versare per mostrare la sua fede infondata.

Che rapporto allora c’è, nel nostro tempo, tra filosofia ed esperienza? L’esperienza è rimasta sola. Alla filosofia dei moderni non è restato altro che elevarla ad assoluto.

L’empirismo, in senso lato, è il tratto costitutivo della modernità in filosofia. Empirista è stato il gesto cartesiano. Se si deve ricostruire l’edificio metafisico, da dove partire se non dall’incontrovertibile certezza dell’esperienza (‘Io sono, io esisto’)? Il senso della rivoluzione copernicana di Kant, lo sappiamo, è stato quello di far ruotare l’oggetto sul soggetto, cioè sull’esperienza come perno, come sintesi a priori, e la fenomenologia husserliana si è autointerpretata come realizzazione di questo progetto. Nessun Dio è stato onorato dai moderni più dell’esperienza vissuta. Nessuna epoca ha amato di più quanto allo sguardo di un ‘classico’ avrebbe invece rivelato solo il tratto intollerabile dell’inconsistenza.

Si potrebbe portare la storia dell’arte figurativa moderna a sostegno di questa tesi. Basti qui ricordare il fascino irresistibile esercitato sui pittori impressionisti dalle raffigurazioni giapponesi del ‘mondo fluttuante’. In quelle immagini esotiche uno sguardo avido contemplava la sola verità che gli era dato ormai riconoscere: che tutto passa, la grazia sta nel passaggio, e la bellezza non ha la consistenza di una forma ideale, ma la leggerezza di un movimento accennato. L’essere non ‘sta’ ma diviene, il cambiamento è la sua sostanza.

E tra esperienza e coscienza? Il rapporto tra di essi è il punto dirimente. Qui si aprono le due grandi strade battute dall’empirismo dei moderni. Da un lato – e si tratta senz’altro della linea maggiore del pensiero moderno – l’esperienza è stata ricondotta alla coscienza: il primato dell’esperienza ha voluto dire primato della coscienza. Mi piace sempre ricordare a questo proposito il paragrafo 41 della Krisis di Husserl, dove tutto questo è enunciato in modo straordinariamente chiaro e definitivo. Per noi «buoni europei», scrive il filosofo tedesco, l’assoluto non è più Dio ma la correlazione universale di coscienza e mondo. Per noi il fondamento non può essere altro che la coscienza alla quale tutto è dato, per la quale ogni cosa assume senso e valore. Certo non è la coscienza psicologicamente intesa, che è una delle tante cose che sono nel mondo, dotata di una oggettività trascendente simile a quella della sedia davanti a me, ma è la coscienza trascendentale, la coscienza ‘fungente’, cioè operante ‘già da sempre’, perché ci sia costituzione di un mondo. Non posso risalire alle spalle di quella coscienza in atto, perché il mio tentativo di circoscriverla nello sguardo già la presupporrebbe. Gli allievi del maestro tedesco, Heidegger in primis, ne trarranno tutte le inevitabili conseguenze. Nessuna scienza trascendentale del mondo della vita è possibile senza contraddizione. Meglio procedere apofaticamente, vale a dire negativamente, barrando l’essere (cioè la coscienza), e facendone un evento, il ‘luogo’ inattingibile in cui tutto quello che è dato è dato. L’esperienza è il campo dei fenomeni, la coscienza è l’ambito della fenomenalità del fenomeno.

Tradotto in termini più piani, primato della coscienza significa primato dell’uomo. Non di quella concreta realtà psico-fisica che io sono e che, come si diceva, fa parte delle cose del mondo, ma dell’uomo in quanto finitezza radicale, inconsistenza assoluta, ‘essere-per-la-morte’. Che la morte non sia scandalo metafisico ma via d’accesso privilegiata al senso dell’essere è il pensiero segreto del moderno empirismo. Solo chi muore ha diritto all’esperienza. Solo per il mortale si apre un mondo – il ‘fenomeno trascendentale mondo’. Animali, piante, stelle, virus e lo stesso Dio ne sono esclusi, perché esenti da questo amaro privilegio. La finitezza è quella decompressione dell’essere, di cui ad esempio parlerà Jean-Paul Sartre, senza la quale non vi sarebbe ‘essere-per’, relazione, senso e significatività. Incomprensibili appaiono perciò le consuete lamentazioni sul fatto che il morire sarebbe scomparso dall’ambito dell’esperienza. Se c’è stata rimozione (confinamento della morte in ambiti anestetizzati, mitologia della salute perfetta ecc.) è perché morte, finitezza, limite costituiscono per l’empirismo dei moderni l’unico orizzonte della comprensione del senso dell’esperienza. Siccome è però difficile vivere e godere della vita abbagliati dalla luce nera del morire, ecco allora che si mettono in opera pratiche difensive che però sono solo argini fragili, destinati presto a franare di fronte alla marea montante dell’evidenza.

Dall’altro lato, si è sviluppato nella modernità un modo alternativo di concepire il primato dell’esperienza. Questa volta seguendo la linea dei fatti tracciata dalla scienza della natura, una linea che raramente ha trovato udienza nel mainstreamfilosofico fenomenologico-esistenziale. Ci sono stati filosofi – dal pragmatismo americano a Henri Bergson, da un certo Giovanni Gentile ad Alfred N. Whitehead, Raymond Ruyer, Gilbert Simondon, Gilles Deleuze per citarne solo alcuni – per i quali empirismo ha significato l’emancipazione dell’esperienza dal suo riferimento preliminare alla coscienza come dal suo rapporto ad un preteso reale posto al di là dell’esperienza. I filosofi dell’immanenza assoluta hanno insomma preso sul serio l’ipotesi empiristica, affermando la perfetta consistenza dell’esperienza ‘come tale’. Non l’hanno pensata, come sembrerebbe naturale fare, come relazione di un soggetto ad un oggetto. L’hanno cioè ‘purificata’ mondandola da quelle macchie che ne pregiudicavano l’immediatezza. Facendo ciò sentivano di essere fedeli alla rivoluzione scientifica moderna che ancora non aveva trovato una filosofia all’altezza delle sue pratiche. Contro il dogmatismo metafisico, la scienza galileiana aveva infatti affermato per prima l’assoluto del cambiamento, ma la scienza da sola non aveva i mezzi per pensare questo assoluto in cui era immersa. Pensare il senso dell’esperienza promossa dalla scienza è stato la scommessa intellettuale di un empirismo ‘radicale’.

Una filosofia dell’esperienza pura si pone al di quale della Scilla e dei Cariddi dell’idealismo e del realismo. Al di qua, cioè, tanto dell’antropologia quanto di quel positivismo ingenuo che ancora oggi rialza la cresta e si protesta come la sola posizione veramente speculativa, vale a dire capace di cogliere l’‘in-sé’ del reale. È al di qua dell’idealismo perché non necessita, per essere, di un riferimento preliminare all’uomo, comunque si intenda questa trascendenza fondante (Io penso, spirito, coscienza trascendentale, Dasein ecc.).

Ad essere messo in questione, seguendo tale linea di pensiero, è il primato ontico-ontologico (per dirla con Heidegger) dell’uomo quanto alla comprensione del senso dell’essere. Ma è anche al di qua del realismo perché l’esperienza non necessita di un riferimento preliminare al reale, al presunto oggetto posto fuori dall’esperienza. A fondare l’accesso al senso non è più la morte, ma la vita che vive qui e ora, la vita in atto fissata in un presente assoluto, che non può essere circoscritto dallo sguardo teorico, proprio come si diceva della coscienza dell’altra linea. Ma è una vita anonima, impersonale, singolare (né universale, né particolare), che è condivisa da tutto ciò che è per il semplice fatto che è: animali e uomini, piante e virus, stelle e Dio posti su di un piano di parità ontologica assoluta.

Che ne è allora del senso, in questa prospettiva? Senso, in italiano, ha anche il significato di ‘direzione’ (senso unico, vietato). Evidentemente, per l’empirismo dei ‘moderni’, la direzione indicata dall’esperienza era quella dell’uomo. L’uomo chiama infatti ‘non-senso’ tutto ciò che smentisce la sua centralità. Le filosofie dell’assurdo, fiorite nel secolo appena trascorso, sono generate, quindi, dalla frustrazione di un’aspettativa ‘trascendentale’. Nascono dalla sorpresa provata dall’uomo quando scopre di non trovarsi in un mondo a sua misura (sorpresa denominata ‘angoscia’). La sorpresa diventa ben presto risentimento e indignazione (paradigmatico è, a questo proposito, il monologo di Ivan Karamazov). Ci si risente, poi, soprattutto nei confronti della scienza galileiana che avrebbe svuotato il mondo della sua anima – cioè dell’anima dell’uomo – per lasciarlo essere come cosa insignificante. Il criterio dell’insignificanza è infatti proprio questa ostentata indifferenza della natura ai desideri umani.

Per l’empirismo puro dell’altra linea il criterio non è però l’uomo. A dire il vero non c’è nemmeno più un criterio per attribuire valore all’esperienza, perché l’esperienza come tale non è più qualcosa che possa essere passato al vaglio del giudizio. Sono le cose nell’esperienza ad essere passibili di valutazione, per il meglio e per il peggio di questo determinato punto di vista che incarno, ma l’esperienza come tale è al di qua della distinzione senso (umano)-non senso (umano). ‘Al di qua’ significa che la vita manifesta, per il solo fatto di vivere, un senso più che umano, un senso assolutamente immanente al suo accadere. Quando il filosofo speculativo al cospetto della palese contraddittorietà dell’esperienza enuncia il suo mantra – ‘Tutto è bene’ – non dà allora un giudizio di valore, non assolve il reale dal male che lo screzia. Piuttosto enuncia il senso speculativo dell’esperienza pura: tutto è bene perché il bene è il tutto, perché il bene è l’accadere, perché il bene è il ‘che c’è’. Attraverso il pensiero è così data all’uomo la possibilità di pervenire a quel punto puro della contemplazione in cui già da sempre si trovano animali, piante, stelle, virus e Dio, i quali, come ebbe a scrivere una volta Whitehead (riprendendo Plotino), per il solo fatto di esistere cantano la gloria del creato.

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