S/VELO

Nelle pratiche discorsive e metaforiche, nell’immaginario e nell’iconografia della nostra cultura, il velo, così come il gesto del velare o dello svelamento, è stato associato sia al sacro sia al profano. Esso rimanda alternativamente al vedere-attraverso, al baluginìo dell’intravedere, e all’oscurità dell’enigma in cui si cela e si custodisce il mistero; alla nudità della verità svelata e alle apparenze ingannevoli (i famosi veli di Maya o di Isis); al desiderio di possesso e alla distanza; alla purezza e all’erotismo; ai canoni tanto del pudore quanto della seduzione femminili (di cui la danza dei sette veli di Salomè è emblema); alla sacralità e alla profanazione.

Richiama infatti la violenza sull’altro («sciogliere i sacri veli di Troia» è il sogno di Achille, che assimila l’abbattimento delle mura della città allo stupro del velo che ricopre la dignità delle sue donne), ma anche la venerazione nei suoi confronti («Sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve», scrive Dante). Il velo ha tenuto insieme, in un doppio vincolo, nel loro contrapporsi ma anche nel loro reciproco e intimo rimando, la Verità, come oggetto del desiderio del sapere, e il Femminile, costruzione di genere e luogo immaginario di ogni ambivalenza.

Tanto che Nietzsche, nella sua critica alla filosofia come metafisica e al concetto di verità, quale presupposta essenza da svelare, ricorre proprio all’immagine del femminile, ribaltando in positività vitale tutto ciò che ad essa era associato con segno negativo. Secondo Nietzsche infatti l’artificiosa contrapposizione tra verità e apparenza – tra «mondo vero», ideale, superiore, puro, e «mondo apparente», corporeo, inferiore, fallace, regno caduco dei sensi – ha indotto i filosofi a «chiamare verità la menzogna», togliendo valore a questo mondo e condannando la vita, coi suoi giochi di superficie e velamenti, a non-essere, a non-verità. Ma per Nietzsche la verità sta proprio in questa verità della non-verità. Mentre la verità che non comprende la vita diventa falsità, favola consolatoria in cui trovare rimedio alle proprie paure; disvelamento teso a catturare, al di là dei veli, una verità identica a sé. Ma la verità, come la vita, «è donna». E il filosofo in quanto dogmatico, che crede nell’unicità della verità, «è uno che non capisce nulla di donne» e della verità del differire, non capendo che «la verità non è più vera se le si tolgono i veli di dosso». La velatezza entra poi con Heidegger a costituire l’essenza stessa della verità attraverso la parola aletheia e la sua etimologia: è proprio della verità il non darsi mai nella sua totalità e compiutezza a causa del continuo velamento/svelamento dell’essere che si ritrae mentre si mostra («allo svelarsi appartiene il velarsi»), alla stregua del linguaggio che è insieme illuminante e oscurante.

Ma, al di là del gioco vertiginoso che la triangolazione verità-velo-femminile innesca, che ne è del velo rispetto alle donne? Non ha forse subìto una metamorfosi nella nostra contemporaneità globalizzata, caricandosi di una semantica del tutto nuova e riproponendone, pur diversamente, una assai antica?

Torniamo dunque a chiederci: cos’è un velo, quali i suoi usi e i suoi molteplici significati? E di cosa è divenuto oggi segno o simbolo?
Il velo è, anzitutto, una parte dell’abbigliamento femminile usata per coprirsi il capo nei luoghi pubblici e di culto. È presente in ambiti culturali e religiosi differenti, acquistando storicamente significati diversi e simili. Nella nostra cultura è quello bianco verginale delle bambine alla prima comunione o quello nuziale che si allunga nello strascico delle spose. Quello nero e molto fitto del lutto delle vedove. Quello tradizionalmente portato dalle donne per entrare in chiesa e assistere alle funzioni, e che le monache indossano permanentemente e assumono in un’apposita cerimonia, a testimonianza della loro sottomissione a Dio. Così che ‘prendere il velo’ o ‘deporre il velo’ sta a indicare il monacarsi o l’abbandono dello stato monacale.

Nell’antichità greco-romana, ma anche nelle società pre-islamiche, esso era invece per lo più un segno di distinzione che indicava lo status sociale: indossato da donne altolocate, era vietato a schiave e prostitute (donne infatti ‘pubbliche’). Ne è stato il logico proseguimento, fino a parte del Novecento, il cappello, corredato anche di veletta. Nel ‘nostro’ mondo, per secoli, le donne ‘per bene’ non sono mai uscite di casa a viso o a capo scoperto. Il copricapo marca così una differenziazione all’interno del genere femminile.

Nelle religioni il velo assume un valore sacrale. Dio stesso si vela nel rivolgersi all’uomo. Mosè non può guardare direttamente Dio e quando ridiscende dal monte Sinai è, a sua volta, «talmente luminoso che dovette velarsi». Anche per Al-Ghazali, il grande teorico dell’Islam, così luminoso è il volto di Dio che l’occhio umano può contemplarlo solo coperto da molteplici velamenti. Il termine usato è hijab, ossia ‘copertura’ (lo stesso che oggi indica il velo che incornicia il viso di molte donne musulmane). C’è poi il velo sul calice del corpo di Cristo nella liturgia eucaristica; e il velo della tenda, dell’Arca del tempio, presso gli ebrei: la cortina che la separava dal luogo santo in cui era consentito l’accesso. Il velo è qui ciò che cela, nasconde e, insieme, preserva dall’invasione di uno sguardo profano e profanante.

Ma l’integrità di una religione, come l’identità di una cultura, è garantita dalla posizione che le donne hanno in essa o che viene loro assegnata. Dalla loro ‘condizione’, tanto spesso condizionata. È qui che il velo da antico segno di distinzione di status è diventato un segno di separazione, di esclusione dalla sfera pubblica e al contempo di gerarchia terrena. Nel primo cristianesimo il velo per le donne viene motivato teologicamente da san Paolo. Nella Lettera ai Corinzi egli scrive infatti che l’uomo non deve velarsi il capo perché è «l’immagine e la gloria di Dio» mentre la donna «è la gloria dell’uomo». Il velo ne marca dunque la dipendenza dall’uomo e la naturale inferiorità rispetto a Dio. Ma se san Paolo si riferiva solo alla pratica religiosa, Tertulliano nel suo De virginibus velandis arriva a imporre alle donne di non uscire di casa a capo svelato. Perché se l’uomo è a immagine di Dio, la donna è macchiata all’origine dalla colpa, è janua diaboli, e i segni della sua insidiosa bellezza, come la chioma, devono essere neutralizzati.

Certo da tutto ciò siamo talmente lontani da perderne memoria. Altri sono stati del resto i modi per velare le donne e la loro presenza nel mondo. In Europa non si è mai data una lotta pro o contro il velo simile a quella tra iconoclasti e iconofili. Eppure è proprio ciò che, in un contesto mutato, sembra accadere oggi.

Al contrario, nell’Islam la questione del velo ha sempre fatto discutere. Le interpretazioni del Corano si sono intrecciate con le politiche dei regimi che hanno governato i tanti paesi a maggioranza musulmana. Più volte il velo è stato oggetto di leggi che ne hanno imposto l’abbandono o, viceversa, lo hanno reintrodotto obbligatoriamente e indistintamente per tutte le donne. Non dobbiamo però dimenticare che c’è una grande differenza tra il hijab della tradizione, che nasconde i capelli e il collo, e il velo che copre il viso o persino gli occhi, come nel burqa che rinchiude l’intero corpo in un carcere ambulante. L’Islam integralista lo è tanto più quanto più integrale è il velo delle donne: sottratte alla visibilità pubblica, di loro resta un corpo indistinto, presente ma invisibile. Ciò che in questi casi viene nascosto, dietro il velo-uniforme di donne ridotte a puro fantasma del femminile, oltre al loro reale aspetto, è la differenza interindividuale, la distinzione di questo corpo da tutti gli altri, l’individualità di ciascuna. La donna velata esprime così la sua interdizione a essere vista e diventa portabandiera di un’ideologia oscurantista o immagine assoluta, antitetica e complementare, da contrapporre alla nudità integrale del corpo femminile continuamente esposto nel mondo occidentale.

Qui, da quando l’Oriente da vicino di mondo è diventato vicino di casa, il comune immaginario insieme ai suoi codici visivi è mutato profondamente. Per lungo tempo l’Oriente musulmano ha alimentato le fantasie erotiche maschili dell’Occidente e proprio i veli femminili sono stati la cifra di quell’intero mondo. In particolare attraverso l’esotismo dell’harem si è formato il miraggio dell’Altro: dalle Mille e una notte alle Donne di Algeri nei loro appartamenti di Delacroix, dalla Salomè di Oscar Wilde al segreto delle città islamiche spiegato attraverso i veli delle sue donne nel Viaggio in Oriente di Gérard de Nerval.

Ormai il velo, in quanto tale, è divenuto il corpo di un reato contro la laicità: la inaccettabile e illegale ‘ostentazione’ dell’appartenenza alla religione islamica. Come sancisce la loi foulardière francese, che fa, paradossalmente, di ogni velo un’unica verità, non distinguendo il copricapo proprio di un abitus da quello che può produrre reali problemi di ordine sociale, offende i diritti o nega la libertà personale. Perché non vietare allora anche il turbante dei sick? E, per essere ‘giusti’, quanto grande deve essere una croce o una stella di Davide perché non diventi un segno ostensivo? In tutto ciò si alimenta proprio quella ideologia comunitaria che si dichiara di voler contrastare. Preoccupati come si è unicamente di riportare le differenze al gioco identitario, per la paura di accogliere ciò che non si controlla a priori, in realtà si vede nel velo un’alterità che non si lascia assimilare. Un’alterità che finché era lontana, finché abitava ‘l’Altrove’, poteva anche animare i sogni e il desiderio ma la cui presenza, divenuta prossima, risulta intollerabile. Così in un atteggiamento che non predilige un effettivo contatto con l’altro, rispettandone l’eterogeneità, l’incontro è solo prevaricazione.

Ciò cui assistiamo è, su due fronti opposti, una battaglia combattuta letteralmente sulla testa delle donne. Ma, reinventando la tradizione e ribaltando lo stigma, molte donne immigrate giocano, coi loro veli, le speculari logiche identitarie. Il velo infatti viene spesso usato come mezzo di emancipazione che consente, all’interno di un ordine patriarcale e autoritario, di poter uscire di casa e studiare. D’altra parte vediamo sempre più spesso, nelle nostre città, giovani che indossano con estrema disinvoltura su jeans, vestiti o scarpe all’ultima moda, il hijab, assunto proprio per potersi rendere visibili in una società che le vorrebbe invisibili. Un po’ come nel lavoro artistico di Christo, che vela oggetti e interi edifici per renderli nuovamente alla vista. Essenzialmente ambivalente, questo nuovo uso del velo mette in gioco le appartenenze troppo nette e definite, e il differente non permette all’identità di chiudersi su se stessa. La verità che allora questo velo, rivelandosi, svela è l’ineliminabile e irriducibile molteplicità, pluralità, degli esseri umani che abitano la Terra comune.

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