TRANS-

La mano è la finestra della mente
Immanuel Kant

Una schermata vuota può incutere parecchio timore, specialmente all’inizio di un progetto. Abbiamo 16,7 milioni di colori, migliaia di caratteri e miliardi di immagini a portata di mano, ma non li possiamo toccare. Sono nascosti dietro a un pezzo di vetro e la maggior parte di noi non sa né da dove siano arrivate tutte queste applicazioni, né in che modo. È come aprire il cofano di un’automobile moderna: invece di vedere un motore con i suoi contenitori metallici, cavi e connettori, troviamo solo un grande involucro di plastica nera. Non c’è modo di scoprire come funzioni, e quindi finiamo per dipendere da un esperto che lo collegherà a un computer e poi ci dirà quello che il computer gli dice. Abbiamo perso il controllo delle cose da cui dipendiamo. Quando capiamo un concetto astratto, lo ‘afferriamo’, come se avessimo bisogno di toccarlo per comprenderlo appieno (in tedesco la parola è begreifen). Da bambini è così che impariamo: niente esiste fino a quando non l’abbiamo toccato. Ma muovere un mouse non è come lavorare con le nostre mani.

John Ruskin (1819-1900), uno dei grandi visionari dell’Ottocento, credeva nel potere dell’arte di trasformare la vita di chi era oppresso dalla scarsa alfabetizzazione visiva, ancor più che dalla povertà. Era il tempo della prima rivoluzione industriale e Ruskin osservava che le persone erano dominate da macchine che ne plasmavano la vita. Reclamava uno spazio libero in cui poter sperimentare, fare errori, persino perdere momentaneamente il controllo. Nella sua visione, l’artigiano era l’emblema della sperimentazione libera e del fallimento salutare. Un laboratorio doveva essere uno spazio capace di offrire l’opportunità di esitare, avere dubbi, essere più di uno ‘strumento animato’.

Avrei potuto aprire una panetteria, un laboratorio di lavorazione del metallo, una falegnameria. Invece, ho scelto una tipografia: ‘Hacking Gutenberg’, il nostro laboratorio di Berlino, è ciò che Richard Sennett nel suo libro L’uomo artigiano definisce «uno spazio libero in cui le persone possono sperimentare, uno spazio solidale in cui poter perdere il controllo, almeno in modo temporaneo. Una condizione per la quale le persone dovranno lottare nella società moderna».

Lavorare con caratteri tipografici e macchine da stampa non solo aiuta a coordinare mani e occhi, ma crea anche artefatti per la nostra mente, ‘contenuti’ sia stimolanti dal punto di vista intellettuale che belli da guardare. Se invece smettiamo di creare cose, non faremo che scorrere schermate, perdendo ogni connessione con il mondo reale.

A partire dall’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg, avvenuta quasi seicento anni fa, il sistema tipografico di lettere e spazi – orizzontali e verticali – si è via via perfezionato diventando una gigantesca griglia che può essere suddivisa e moltiplicata in innumerevoli modi. Se si rispettano i vincoli, incluso quello temporale, le pagine saranno sempre ben fatte: dedicare troppo tempo ad apportare migliorie farà apparire il risultato artificioso e inappropriato. La modestia, infatti, è una virtù quando si lavora con elementi e strumenti ben definiti, ma finiti.

La forma del libro si è definita nel viaggio tra Magonza e Venezia. Non è cambiata molto perché continuiamo a tenerlo tra due mani a una distanza comoda dai nostri occhi, che sono ancora l’uno accanto all’altro. Una pagina è ancora una pagina con i suoi margini, anche quando esiste solo virtualmente. Toccando questi elementi, riconosciamo da dove provengono e la loro funzione. Anche i nostri strumenti online utilizzano ancora le espressioni tradizionali per la dimensione del carattere, l’interlinea e la spaziatura.

Creare una pagina è un lavoro di costruzione, la tipografia è una disciplina strutturale. La pratica della stampa a caratteri mobili – disporre i caratteri a mano, comporre lettere e righe in pagine e stamparle direttamente su un torchio – ci ricollega a un’abilità artigianale. Le lettere sono oggetti, lo spazio tra gli elementi di stampa sulla pagina non è vuoto, deve essere riempito con 165 altri elementi. Si fanno calcoli mentali, si prova e si riprova finché il tutto non si armonizza.

L’attrezzatura per la stampa a caratteri mobili è pesante e ben costruita. Più fragile, invece, è la nostra conoscenza dell’uso di presse e materiali. Se non riusciamo a coinvolgere i giovani nella pratica, presto ci saranno solo musei della stampa, con macchine circondate da cordoni rossi e cartelli che dicono «Vietato toccare». Il fatto di avere riunito professionisti e studenti in un laboratorio ha creato un nuovo interesse per come si lavora con la nostra vecchia attrezzatura. Le persone amano creare oggetti, tornano a casa felici e arricchite, e apprezzano tanto le scelte infinite che gli offrono i computer, quanto i vincoli della stampa tipografica. Le due cose si rafforzano a vicenda.

Il modo migliore per preservare la stampa tipografica (o qualsiasi altra arte) è usare l’attrezzatura per progetti reali. Abbiamo inventato ciò che chiamiamo ‘stampa post-digitale - Hacking Gutenberg’. Abbiamo costruito una nostra macchina al laser per realizzare lastre polimeriche partendo direttamente dall’informazione digitale. Queste lastre vengono poi utilizzate su una Heidelberg Cylinder del 1954 per stampare libri in tirature medio-piccole. Intagliamo caratteri in legno a partire da dati digitali e abbiamo anche inciso matrici per la composizione a metallo caldo. Qui il digitale incontra l’analogico, senza questioni ideologiche. La chiamiamo ‘Conservazione attraverso la Produzione’. Il laboratorio ci offre lo spazio che Ruskin aveva in mente: ci dà il tempo di capire come funzionano le cose. Tocchiamo strumenti che sono stati toccati e usati da altri e portano con sé la loro conoscenza. Non c’è la necessità di progettare per un cliente sconosciuto o uno scopo remoto. Seguiamo solo l’impulso umano di creare qualcosa con le nostre mani cercando di farlo nel miglior modo possibile.

Il processo di produzione non è un ostacolo tra noi e il risultato, come quel computer collegato al motore dell’auto, ma è intrinseco all’oggetto finale, come l’amore che viene infuso nella preparazione di un pasto. Il processo non crea un intralcio tra il destinatario e il messaggio, ma lo valorizza. Ci piace la parola tedesca per l’artigianato: Handwerk.

Traduzione di Giulia Zuodar.

multiverso

18