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In tempi recenti gli intellettuali affascinati dai miti della sapienza originaria e dell’uomo nuovo hanno vissuto un grande disagio. Un bel, anzi brutto, giorno si sono risvegliati in un mondo privo di racconti e metaracconti, narrazioni e metanarrazioni. In tempi più recenti, però, hanno potuto tirare un sospiro di sollievo, perché per fortuna loro e sfortuna di tutti gli altri le grandi favole per adulti sono tornate, riemergendo da un lontano e frastagliato passato.
In un piccolo libro del 1979, dal titolo La condition postmoderne, Jean-François Lyotard aveva decretato la fine dei metaracconti (illuminismo, idealismo e marxismo) e aveva introdotto in filosofia il termine ‘postmoderno’, che, semplificando, stava a indicare che il progetto della modernità di dare un senso unitario alla realtà era ormai morto e sepolto. Di fronte alle metanarrazioni, che offrivano una legittimazione del pensiero e dell’azione richiamandosi al progresso e all’emancipazione e che davano luogo a una visione della storia come cammino verso una meta prefissata, non restava che manifestare «incredulità».
È venuta in soccorso la World Transhumanist Association, che è stata fondata nel 1998 dal filosofo svedese Nick Bostrom e che si chiama ora Humanity+. È così riapparsa un’altra grande ideologia, come sintesi di temi e motivi dalla lunga storia, che colloca l’uomo in una storia salvifica che ha finito con l’affascinare Lyotard stesso. Dove stiamo andando, che ci piaccia o no, ce lo dice adesso un altro ‘-ismo’, il transumanismo o transumanesimo che dir si voglia. Come tutti gli ‘-ismi’, anche questo contiene molte e a volte contradditorie cose. Il collante può essere efficacemente condensato così: «I transumanisti sono un movimento intellettuale che si è posto quale obiettivo l’alterazione della natura umana attraverso l’uso della ragione, della scienza e della tecnica. Riteniamo possibile e desiderabile contrastare il processo di invecchiamento, allungare in modo indefinito la vita, aumentare le capacità intellettuali, fisiche e psicologiche della specie umana. In una parola, rivendichiamo il diritto (e forse anche il dovere) di agire in funzione dell’evoluzione autodiretta della specie» (R. Campa, Introduzione, in Il Transumanismo. Cronaca di una rivoluzione annunciata, Lampi di stampa, 2008, p. 12).
Il termine transhumanism era apparso già alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, in un saggio omonimo del biologo inglese Julian Huxley posto in apertura del suo volume New Bottles for New Wine (1957). Grazie all’uomo – affermava Huxley – l’universo sta diventando consapevole di se stesso. Responsabilità e destino degli esseri umani sono ormai definiti. Che lo voglia o no, che ne sia consapevole o no, l’uomo sta determinando la direzione dell’evoluzione sul pianeta Terra. È un destino ineluttabile che lo spinge alla massima realizzazione delle sue possibilità. Siamo solo all’inizio di un’avventura che ci vede inesorabilmente impegnati nell’esplorazione della natura umana: siamo di fronte a un vasto nuovo mondo di possibilità che sta ancora aspettando il suo Colombo. La specie umana ha l’occasione di trascendere se stessa, nella sua interezza, come specie appunto, continuando però l’uomo a rimanere uomo, aggiungeva Huxley. Possiamo chiamare questa nuova convinzione transhumanism, affermava alla fine di questo breve, intenso saggio. Quando ad avere quella convinzione sarà un numero sufficiente di persone, la specie umana sarà alle soglie di un nuovo tipo di esistenza e compirà, questa volta in modo consapevole, il suo vero destino.
È passato poco più di mezzo secolo e sembra che la profezia di Huxley si stia avverando. Quel numero sufficiente di persone esiste già (la più grande associazione transumanista mondiale è presente in cento paesi), ma soprattutto è già per molti versi a portata di mano la fabbricazione dell’uomo nuovo. «Anche noi saremo cyborg e postumani, perché il postumano è il naturale [cioè inesorabile] sbocco della cultura occidentale», sentenzia uno dei guru nostrani improvvisandosi qui filosofo della storia. Non si tratterà soltanto di prendere «tutti i geni umani che consideriamo soggettivamente migliori» per fabbricare «un nuovo tipo di uomo» che abbia al massimo grado intelligenza, memoria, potenza fisica, velocità, longevità, resistenza agli agenti patogeni, ecc. Quello che creeremmo in tal modo non sarebbe un «transumano» o un «oltreuomo». Lo scenario cambia significativamente «se “miglioriamo” (sempre soggettivamente) questo essere, aggiungendo altri geni che gli danno nuove possibilità» e lo avvicinano al «divino». L’intelligenza artificiale, la robotica, l’ingegneria genetica e la nanotecnologia sono i settori 111 in grado di attuare il programma transumanista (R. Campa, Mutare o perire. La sfida del transumanesimo, Sestante Edizioni, 2010, pp. 32, 37, 46, 236). Il nostro guru riconosce che sarebbe necessario uno «sforzo colossale» per consentire «l’evoluzione a tutti coloro che la vogliono» e in ogni caso «resterebbero sul campo milioni o miliardi di esseri umani che, legittimamente, decideranno di restare tali». Insomma, potrebbe essere alle porte la fine di un «destino comune». Di fronte a questa possibilità e alle conseguenze che ne derivano, non si scompone. Anzi, con placida postura, ritiene che sarà «interessante» osservare «se la divaricazione di destini avverrà a livello di individui, gruppi sociali o interi popoli, se vi saranno lotte o pacifica convivenza, se vi saranno divisioni territoriali o società inter-specie, e non solo inter-etniche» (Campa, Mutare o perire, cit. pp. 28-29).
Se proviamo a chiederci che cosa ci sia al fondo di questa ideologia, scopriamo che la risposta è più semplice di quello che pensiamo: c’è l’indisponibilità (ma sarebbe meglio parlare di incapacità) ad accettare la fragilità, la contingenza, la caducità, la finitezza. I transumanisti aspirano a essere «perfetti» e, per quanto strano possa sembrare, vedono in questa aspirazione una manifestazione di umiltà e di modestia, perché derivante dal riconoscimento di una mancanza e di un’imperfezione. Porre rimedio alla mancanza e all’imperfezione è di fatto considerato fine a stesso e indipendente da qualunque sistema di valori. Ciò che, dal loro punto di vista, merita di essere difeso è la volontà di potenza. Tutti concentrati sul trascendimento futuro della propria natura, i transumanisti, al di là dei proclami, non mostrano in genere particolare sensibilità né per la salute attuale del pianeta né, direi cosa anche più grave, per la sofferenza delle infinite altre nature, che ancora in molti paesi del mondo combattono per la mera sopravvivenza. In tal modo, si pongono decisamente fuori da una qualsivoglia prospettiva etica.
La nuova favola per adulti, che in questi anni è stata raccontata in tutte le salse dando luogo a una letteratura imponente, non mi pare a lieto fine, se è vero che lo scenario è quello di un paradiso artificiale in cui pochi privilegiati sono diventati immortali come gli dei. E qui la favola rischia seriamente di trasformarsi in un racconto horror. I transumanisti, o meglio alcuni di loro, possono tranquillizzare quanto vogliono quelli che ancora non si sono convertiti. Rimane il fatto che quei pochi privilegiati potranno, potenzialmente in eterno, fare, insieme col bene, il male. O c’è forse qualche illuso che pensa che riusciremo davvero a sfrattare il Mr. Hyde che dimora in ciascuno di noi?

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