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Davide Molinaro intervista Gaia Perini

In cinese
laowai bu dong non significa solamente ‘straniero che non capisce’, piuttosto significa ‘straniero che per definizione non capisce’ o ‘straniero che non può capire’. La cultura cinese e quella europea sono senza dubbio molto diverse tra loro; tuttavia, un conto è se l’europeo non può capire la cultura cinese perché non la vive e non conosce la lingua, un altro è se, pur conoscendole, rimane per sempre, inevitabilmente, uno straniero. Com’è cambiata e come si connota oggi la percezione dello straniero?

In quindici anni di vita a Pechino confesso di aver sentito molte volte l’espressione laowai bu dong, ma a dire il vero quasi sempre si riferiva alla cultura politica cinese, più che alla cultura in senso lato. È innegabile che si tratti di una formula che erige un muro e blocca l’avanzamento di qualsiasi discussione; scatta quasi come un riflesso condizionato quando uno straniero giudica il sistema monopartitico, o l’operato del Partito comunista, senza avere mai studiato la storia della Cina. «Sei straniero, cosa ne capisci»: è la reazione tipica di fronte ai giudizi che alle orecchie dell’interlocutore cinese suonano troppo frettolosi e sommari.
Al contrario, non appena il suddetto straniero dimostra un minimo di apertura mentale e di curiosità per la lingua, o per gli usi e costumi cinesi, la controparte risponde con entusiasmo, tanto che spesso basta che dica ni hao (‘ciao’) perché venga sommerso di complimenti: «ma come parli bene!», «che bella pronuncia!». La percezione dello ‘straniero’ è comunque mutata profondamente in questi anni e ciò dipende non solo dai cinesi, ma anche da noi e dalla nostra disponibilità al dialogo. A questo proposito, è sempre utile ricordare il celebre scambio di battute fra Henry Kissinger e Zhou Enlai nel 1971, all’epoca della ripresa delle relazioni diplomatiche tra il gigante asiatico e gli Stati Uniti: quando Kissinger definì la Cina «un paese misterioso», il premier Zhou lo corresse, dicendo – con il maggior tatto possibile – che in verità non c’è mistero alcuno, per capire la Cina basta studiarla.

La Cina non esporta la sua cultura in Europa, a differenza di quello che hanno fatto e continuano a fare le maggiori superpotenze come Stati Uniti e Giappone. Perché vige questo isolamento culturale, nonostante non vi sia un isolamento economico? Se la Cina non esporta i propri modelli culturali, come può un europeo avvicinarsi a una comprensione del mondo cinese?

Quasi vent’anni fa il Ministero dell’Istruzione cinese creò gli Istituti Confucio, al fine di favorire la diffusione della cultura cinese nel mondo: oggi questa istituzione è presente ovunque, anche in Italia, dove collabora con circa dodici atenei. Gli Istituti Confucio da un lato organizzano corsi di lingua e cultura cinese presso le proprie sedi, mentre dall’altro forniscono gratuitamente dei lettori madrelingua alle università con cui prendono accordi. La presenza ormai capillare dei Collaboratori ed Esperti Linguistici (CEL) inviati dal Confucio nelle università italiane è divenuta oggetto di un acceso dibattito, poiché da più parti si teme che le attività svolte in classe da queste figure non si limitino alla glottodidattica, ma sconfinino nella propaganda politica a favore del governo cinese e di Xi Jinping. La questione è complessa. Al di là degli Istituti Confucio, comunque, è vero che negli ultimi vent’anni gli studi sinologici hanno fatto dei passi da gigante e in molte regioni italiane il cinese viene insegnato sin dalle scuole superiori, ma è altrettanto vero che il sapere sulla Cina fatica a circolare fuori dai circuiti degli ‘addetti ai lavori’ e raramente diviene patrimonio comune e condiviso. Di questo, però, temo sia responsabile il nostro paese ben più della Repubblica Popolare.

La cultura permette di creare un senso di appartenenza e d’identità che sta alla base della definizione della dimensione politica. Alla luce delle differenti visioni del mondo, come appaiono oggi sul piano culturale le relazioni e cosa si aspetta la Cina dall’Europa?

L’antico concetto confuciano di ‘armonia’ tuttora gioca un ruolo chiave nella diplomazia cinese, che è orientata alla costruzione di rapporti bilaterali e multilaterali win-win, basati sulla cooperazione, anziché sulla competizione. Da un punto di vista schiettamente culturale, l’Europa e la Cina sono accomunate dall’essere entrambe civiltà plurimillenarie con un alto grado di sviluppo economico, artistico e scientifico raggiunto prima dell’epoca moderna. I diplomatici cinesi in missione in Unione Europea fanno spesso riferimento a quell’antico ordine del mondo, ai fasti dei nostri passati imperi, mentre i nostri politici, per ragioni direi più storico-politiche che culturali, faticano a uscire dagli schemi creatisi alla fine della seconda guerra mondiale, dove noi in primis apparteniamo al cosiddetto ‘Occidente’ (ossia al blocco che salda insieme Europa e Stati Uniti). Attualmente, la divisione fra ‘Oriente’ e ‘Occidente’ si è ulteriormente approfondita a causa della guerra in Ucraina, ma già in precedenza, con la pandemia, la Cina si era fatta più lontana. Credo che i cinesi oggi si sentano fondamentalmente soli.

Quanto può essere utile la mediazione culturale nel processo di familiarizzazione col contesto cinese?

La mediazione culturale è indispensabile e serve a tutti i livelli: dall’interpretariato di cinese commerciale alla ricerca accademica, sino al giornalismo, all’analisi politica di quanto accade in Cina o tra i nostri due paesi. L’apprendimento della lingua è assolutamente necessario, ma non sufficiente. Bisogna imparare a parlare con le comunità cinesi residenti in Italia, così come con i cinesi che vivono nella Repubblica Popolare, mettendo da parte la sinofobia, strisciante e spesso inconscia, ma comunque onnipervasiva. Bisogna imparare a decifrare i discorsi di chi ci agita davanti lo spauracchio del ‘pericolo giallo’: che interessi serve? Cui prodest? Contemporaneamente, va tenuto ben desto il senso critico nei confronti della Cina stessa, perché le contraddizioni e le ingiustizie abbondano e, se spesso sono falle precipue del suo sistema, altre volte capita che siano invece legate a un modello distorto di sviluppo che non è poi così distante dal nostro. Il gigante asiatico con la sua economia di scala è come un’enorme lente di ingrandimento, assai utile per osservare processi e tendenze del mondo intero: la Cina può fungere da metodo, e non solo da oggetto, della nostra ricerca e delle nostre analisi.

Sulla base del confronto culturale e delle implicazioni di carattere politico sinora messe in evidenza, possiamo parlare di una cultura euroasiatica? Da questo possibile terreno comune potrà nascere o è già concepibile un’identità euroasiatica e come viene vista dalla prospettiva europea e da quella cinese?

Nell’unico documento programmatico – pur nella sua vaghezza – che il governo di Pechino ha rilasciato rispetto alla crisi ucraina, si usa la parola ‘Eurasia’, nella speranza che quella che viene letta come una crisi del continente euroasiatico venga risolta dagli stessi paesi che ne fanno parte. Parimenti, il progetto della Via della Seta, noto anche come One Belt One Road (OBOR), coinvolgeva il Sud-Est asiatico, l’Asia Centrale, il Vicino Oriente, l’Africa e buona parte dell’Europa. In Italia, l’attuale governo ha deciso di uscire dalla Via della Seta e ha ufficializzato la propria posizione durante l’ultimo G20. Come ho già detto, il nostro paese, così come altre nazioni dell’Unione Europea, preferisce identificarsi come ‘Occidente’, anche se una nuova identità eurasiatica potrebbe fruttare parecchio dal punto di vista degli investimenti e dell’apertura di nuovi mercati.
In breve e per concludere, in politica estera il governo di Xi Jinping (in carica dal 2012) ora e quello di Hu Jintao ancor prima (2002-2012) puntavano alla creazione di un mondo multipolare e policentrico, possibilmente pacifico, che permettesse alla Cina di prosperare portando il suo sviluppo a piena maturazione, anche senza dover necessariamente scalzare gli Stati Uniti dalla loro posizione egemone. Come sappiamo, è andata e sta andando in tutt’altro modo: poco ci è mancato che l’invasione russa dell’Ucraina ci portasse sul baratro della terza guerra mondiale. Tutti i conflitti in corso, freddi o caldi che siano, rinsaldano la polarizzazione fra Est e Ovest, e la difesa a tutti i costi dei valori occidentali è invocata non soltanto dalle forze più bellicose, ma anche da partiti e gruppi sociali solitamente moderati, che il vento di guerra spinge a destra. In queste condizioni, è davvero complicato tenere aperto il dialogo; tuttavia, proprio perciò, è fondamentale non chiudersi e non rinunciare al confronto. Ne va della comprensione reciproca e pure, a mio avviso, della pace nel mondo.

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