UGUALE

Angelo Vianello intervista Telmo Pievani

Angelo Vianello. Professor Pievani, com’è noto i rapporti tra scienza e ideologia sono molteplici. Spesso le ideologie hanno influenzato il cammino della scienza e, d’altra parte, il pensiero scientifico è oggi una forma di conoscenza che ha delle ripercussioni notevoli sulla struttura di una società, sui suoi valori e sulle sue prospettive. Cosa ci può dire a questo proposito?

Telmo Pievani. Sono d’accordo: anche in campo evoluzionistico ci sono state diverse interpretazioni ideologiche di teorie scientifiche. A mio parere, invece, il metodo scientifico, se ben inteso, è una forma di pensiero per definizione anti-ideologica, perché sfida le autorità precostituite e ha bisogno di avere un riferimento e una base empirici; è una forma di pensiero dove il gioco è un gioco di conflitto fra ipotesi alternative e dove il conflitto si gioca in un contesto di regole condivise. Tutto questo apparato, quindi, in qualche modo è per definizione anti-ideologico perché dovrebbe impedire interpretazioni totalizzanti. È anche vero, però, che talvolta viene fatto un uso ideologico della scienza: quando ciò accade, secondo me, si tradisce lo spirito scientifico e questo è pericoloso perché nessuno scienziato ragionevole e serio può mettere in discussione il fatto che questo modo di pensare avrà poi delle ripercussioni sulle sue scoperte e sulle loro applicazioni nella società. Credo, quindi, che sia sempre più fondamentale lavorare sull’idea che la scienza debba essere condivisa e socialmente partecipata perché questo è l’unico modo per evitare quelle interpretazioni fuorvianti che spesso ne vengono date.

Angelo Vianello. In questo contesto il darwinismo sociale è stato uno degli esempi più clamorosi di utilizzazione di una teoria scientifica attendibile, l’evoluzionismo, per finalità sociali, a mio avviso discutibili. Qual è il suo parere?

Telmo Pievani. Sono totalmente d’accordo. Il darwinismo sociale è stato una degenerazione dell’evoluzionismo, che peraltro già c’era e iniziava i suoi primi passi quando Charles Darwin era ancora in vita e lui stesso, in qualche modo, poté vedere e si rese conto dei pericoli di queste derive. In alcune occasioni, da vecchio, ripeté che questa interpretazione gli sembrava molto rischiosa: usò un’espressione molto significativa e disse che quando arrivò all’idea di selezione naturale usò Thomas R. Malthus, che era un demografo e un economista, e che quindi prese una metafora dall’economia e la portò dentro la biologia. Aggiunse, però, di stare attenti a non prendere la sua idea di selezione naturale e a riportarla fuori, nell’ambito sociale ed economico: quindi aveva capito benissimo quali erano i rischi.
Quando si parla di darwinismo sociale, secondo me, bisogna distinguere tre livelli: il primo è quello del contenuto della teoria scientifica di Darwin e quindi la selezione naturale, la variazione, la diversità di ogni individuo come motore del cambiamento, l’unione in rete di tutti gli organismi viventi legati da una parentela storica e così via; ad un secondo livello si collocano le opinioni personali di Darwin, che sono una cosa ancora diversa, cioè le sue attitudini, il suo pensiero politico, la sua idea su alcuni problemi sociali (e la cosa importante, secondo me, da ricordare sempre, anche se a volte ad alcuni sembra strano, è che se uno scienziato ha umanamente delle posizioni politiche che non ci piacciono, questo non retro-agisce sulla sua scoperta scientifica perché le due cose si collocano su piani diversi); c’è poi un terzo livello ancora, che è più complesso, ed è determinato da quelli che interpretano la teoria darwiniana e tentano di estenderla, per esempio, a campi diversi da quello biologico. Questi tre livelli vanno tenuti sempre ben distinti e se si fa questo, secondo me, si evitano anche molti degli errori storiografici che si fanno nel dibattito sull’evoluzionismo.

Angelo Vianello. Proprio in questo clima Darwin è stato talvolta accusato di razzismo, soprattutto da parte di esponenti ben qualificabili della società. Cosa ci può dire?

Telmo Pievani. Secondo me è un’accusa molto ingiusta e bisogna comunque capire anche la complessità del periodo. Darwin ha sempre avuto un’impostazione politica di tipo moderatamente progressista, ma dobbiamo comunque tener conto del fatto che era un vittoriano e che viveva nell’Inghilterra vittoriana. Era, per esempio, un anti-schiavista: fin da giovanissimo rimase colpito da come i colonialisti trattavano gli indigeni in Sud America, per esempio in Brasile, e mi sembra impossibile che si possa dire che un anti-schiavista possa essere un razzista. Sul concetto di razza, poi, scrisse delle cose molto belle e disse che il concetto di razze umane è scientificamente poco plausibile: c’è un bellissimo passo ne L’origine dell’uomo in cui dice che ogni scienziato che è venuto prima di lui ha classificato le razze in maniera diversa quindi, secondo lui, le razze sono un concetto arbitrario perché non riusciamo nemmeno a definire quali sono; quindi sicuramente non può essere definito un razzista. Certo, nelle sue opere ci sono delle frasi che a noi sembrano sgradevoli, per esempio quando parla di razze umane, di razze che sono arrivate a livelli di civilizzazione superiori rispetto ad altre, di competizione tra razze: senz’altro queste cose non ci piacciono, ma considerando il fatto che il suo contesto era completamente diverso dal nostro, non lo definirei un razzista, e penso che vada capito bene qual era il suo pensiero. Stephen J. Gould diceva sempre a lezione: «Considerate Darwin come un grande conservatore nella vita privata, un moderato progressista in politica e un rivoluzionario nella scienza».

Angelo Vianello. L’aspirazione ad un’uguaglianza sociale è un’indubbia e importante conquista dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Come si concilia con le esigenze della diversità, sia culturale che biologica?

Telmo Pievani. Questa è una grande domanda! Io la vedo da evoluzionista e da evoluzionista la risposta è molto semplice: tramite la complementarità dei due aspetti. Quindi la chiave interpretativa migliore dell’evoluzione, secondo me, è l’unità nella diversità, e questo si può osservare a tutti i livelli: l’unità di tipo storico-genealogico, quindi lo studio delle somiglianze, delle continuità naturali, delle parentele. Si deve però anche dire che il motore che ha prodotto questa storia è stata la diversità individuale, la diversità di popolazione. Non si può quindi capire l’evoluzione se non si tiene presente sempre la complementarità dell’unità storica e della diversità biologica e questa, in qualche modo, è una buona chiave di lettura anche per la specie umana, per la sua diversità culturale: più andiamo avanti a studiare la specie umana più ci rendiamo conto che ha un’origine recente, unica, africana, a partire da un piccolo gruppo e quindi estremamente coesa dal punto di vista biologico e genetico, con una grande unità di fondo, che quindi implica il concetto di uguaglianza, il fatto che ogni essere umano ha eguale dignità e deve aspirare agli stessi diritti. È anche vero, poi, che la caratteristica più peculiare di questa specie, così giovane, con questa origine così recente, è quella di essere stata capace di diversificarsi in una quantità di etnie, di culture così differenti che non esistono in altre specie; quindi anche lì la matrice è doppia: l’unità nella diversità. Come tenerle insieme io non lo saprei, certamente l’evoluzione ci fa vedere che non possono stare l’una senza l’altra.

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