VUOTO

Come critico letterario cercherò di riflettere sul rapporto tra la scienza e lo spirito critico, ossia lo spirito che fa sì che sottoponiamo a vaglio quello che ci viene detto e non accettiamo nulla per garantito A rigore, tra queste due sfere non c’è alcun nesso di necessità. La scienza, poi, soprattutto ultimamente, è diventata sempre più autonoma e, sostanzialmente, la critica se la fa da sola: si autocorregge e sempre più sfugge alle possibilità di controllo. Solo gli scienziati possono affermare se un dato scientifico è falso. La critica, invece, presuppone sempre un certo livello di alterità.

Questa situazione è molto diversa da quella del XVIII secolo: Voltaire, ad esempio, uomo di lettere che scriveva anche tragedie, aveva un cabinet de phisique, un piccolo stanzino in cui poteva fare tutti gli esperimenti che confermavano la fisica del suo tempo ed era in grado, grosso modo, di spiegare Newton alla gente. Oggi nessuno può più aspirare a una cosa del genere.

D’altra parte, anche il movimento inverso non è tanto auspicabile. Ogni volta che si è provato a fare della critica che pretendeva di essere ‘scientifica’, si sono creati dei disastri e generalmente tutti i trapianti frettolosi di principi che vengono dalle scienze naturali nel campo delle scienze umane, del comportamento o della politica, generano confusioni, pasticci, spesso veri e propri mostri, di cui un esempio illustre è il darwinismo sociale.
Sarebbe quindi auspicabile che tra questi due campi ci fosse una relazione forte, tuttavia non è necessario che ci sia. È desiderabile, ma non è detto e non è scontata.

A partire dall’Illuminismo o, più in generale, dal diciottesimo secolo, sono successe tante cose, di cui tre particolarmente importanti per il nostro ragionamento. La prima è che la scienza della natura è diventata il paradigma di tutti i modelli di ragionamento: non un’ideologia, come è stata per il positivismo o come rischia di essere a volte anche per noi contemporanei, ma un paradigma della conoscenza rigorosa che non accetta il dogma, che verifica, che si mette in discussione, pratica lo scetticismo metodico e non teme i risultati di ciò che troverà; il paradigma del modo in cui l’animale umano pensa se stesso.

In questa attitudine c’è un forte nesso con lo spirito critico, e questo è il secondo aspetto. Il diciottesimo secolo, infatti, è anche quello in cui nasce tecnicamente la critica letteraria e, più in generale, la critica filosofica; è quello in cui nasce una nuova concezione dell’interpretazione, sempre più legata alla corretta lettura del testo. Prima di allora quell’attività che noi oggi chiamiamo critica era una cosa completamente diversa che si riduceva all’apprezzamento, ovvero: ‘questa poesia è conforme ai modelli’, ‘qui la lingua non è usata in modo puro’, ‘qui ci sono dei difetti, qui ci sono delle bellezze’.

Infine, terzo e ultimo aspetto, è che lo spirito critico entra trionfalmente nella filosofia di fine secolo con la Critica della ragion pura di Immanuel Kant, che è una sorta di teoria della conoscenza della fisica moderna. Nella prima edizione Kant dice che tutto dev’essere sottoposto al tribunale della ragione, nulla cioè è recintato, nulla c’è in cui la ragione non possa in qualche misura dire la sua.

Questa alleanza fra scienza e critica era un’alleanza virtuosa che aveva sicuramente dietro di sé l’appoggio dei ceti produttivi e un momento trasformazione economica; ed è, in qualche modo, qualcosa cui oggi nessuno di noi può rinunciare. Rispondendo alla domanda «che cos’è l’Illuminismo?», Kant esordisce in un saggio con una frase molto celebre: «l’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità». È camminare in piedi, eretti, non avere più qualcuno che ti dice come devi pensare. Dopo due secoli l’idea di fondo è rimasta questa: io indago, mi faccio domande, chi l’ha detto che le cose stanno così? Questo è un fenomeno di grande ambivalenza ed è quello che tutt’oggi avviene anche su internet. Chiunque può dire: «chi ha detto che la teoria della relatività è vera? e chi dice che i vaccini non fanno male? e chi dice che la Terra non è piatta?».

Tutto sommato noi veniamo dall’Illuminismo. Le forme della nostra vita associata, la letteratura, il modo di intendere la filosofia, il diritto, le istituzioni politiche fondamentali sono nati in quel contesto. Anche la stessa idea di nazione, pur essendo abituati a pensarla come ottocentesca, è nata in quel periodo. C’è una filiazione diretta. E siccome gli illuministi sono i nostri progenitori diretti, persone da cui è possibile ricostruire la nostra genealogia, allora guardiamoli in faccia, guardiamo i loro meriti, i loro demeriti e guardiamo come si reggeva, come funzionava e anche quanto costava quest’alleanza tra scienza, spirito critico e una determinata trasformazione in senso progressivamente democratico della società.

Anzitutto quest’impresa secolare, correttiva, pulviscolare, molecolare, comportava un’alleanza strettissima con i sentimenti. Contrariamente a quello che ci hanno sempre insegnato, il diciottesimo secolo non è il secolo della ragione che disprezza il sentimento, è esattamente il contrario. Per il diciottesimo secolo le passioni sono strumenti cognitivi fondamentali. La passione mette in moto la ragione. La ragione è a sua volta una passione. Conoscere è un piacere, un’avventura, è divertente, appassionante. L’Illuminismo è il secolo della riabilitazione della natura umana che si afferma contro l’idea religiosa, cui si erano accodate in parte anche la scienza e la filosofia del Seicento, secondo cui essa è corrotta, infetta, difettosa. Secondo cui bisogna tenere fuori le passioni, se si vuole ragionare rettamente, perché fanno confusione. Durante l’Illuminismo si pensava esattamente il contrario ed esercitare la ragione era qualcosa di profondamente appassionante. Era qualcosa che coinvolgeva tutto l’essere e lo spirito critico era qualcosa che attraversava i corpi.

Tutto questo fervore ha prodotto una grande egemonia, anche perché si è appropriato di due reazioni emotive elementari: il riso e il pianto. Lo stile dell’Illuminismo prima ha sconfitto l’aristocrazia sul piano dello scherno, poi ha strappato il pianto giacché tutta la seconda metà del Settecento diventa sentimentale. Con l’idea che non ci sono limiti, che bisogna provare tutto, l’osare culmina nella rivoluzione francese e anche, per assurdo, nell’opera del marchese De Sade: se dobbiamo sperimentare tutto, dobbiamo sperimentare anche il crimine, la distruzione, la morte.

Qual è il limite di questo atteggiamento? Il limite è che la conoscenza non produce solo piacere, ma è anche fonte di dolore. La conoscenza è spesso distruzione di illusioni. La conoscenza è in qualche modo dissacrazione dell’universo, è l'infrangersi di moltissime speranze ed è anche un’umiliazione narcisistica. Pensiamo alla fine del sistema tolemaico: il mondo era stato creato apposta per l’uomo, l’uomo era poco meno degli angeli; poi ci siamo accorti di stare su una specie di ciottolo periferico. La conoscenza è diventare adulti decretando la fine dei sogni di onnipotenza infantili.

Lo scienziato non è uno a cui si deve volere bene o male, è semplicemente uno che ti dice come stanno le cose. A differenza degli scienziati, i guru, i no-vax, gli entusiasti del metodo Di Bella, tutti quelli che diventano propagandisti attraverso la loro ignoranza settoriale puntano all’instaurazione di un legame affettivo con i loro seguaci, si prendono cura di loro, si spacciano come persone in cui puoi credere. La dietrologia mobilita l’intero dell’essere umano, che è fatto anche di passioni, di paure, di desideri, di fiducia, esattamente come accade nei populismi. È solo dall’alleanza tra la ragione e tutte queste parti dell’essere umano, compreso il suo corpo mortale, che possono nascere momenti di grande avanzamento dello spirito critico.

In La politica come professione Max Weber fa un discorso profondamente tragico e dice che la scienza acquista un potere sempre maggiore in tutti i campi dell’esperienza umana, ma non è capace di dettare i fini. Si limita a produrre risposte e mezzi. La politica, che è un’arte dei fini, sarà di conseguenza sempre meno capace di comprendere quello che la scienza è in grado di fare. Questa disgiunzione è un problema terribilmente serio ed è difficile pensare che la critica possa fare facilmente da vigile urbano tra questi due giganteschi tir. Anche perché mentre la scienza è stata sentita nel Settecento e anche un po’ nell’Ottocento come mezzo di emancipazione, adesso rischiamo di entrare in una sindrome di oscurantismo per cui le cose veramente importanti si decidono in luoghi su cui non abbiamo controllo. Gli stilemi del populismo – si decide tutto a Bruxelles, c’è il gruppo Bilderberg, c’è la massoneria, gli Illuminati di Baviera – nascono dall’impossibilità di attingere alla conoscenza scientifica. La scienza, che rischiarava ogni cosa con la sua luce, torna ad essere un luogo segreto, un luogo buio e inaccessibile. Negli anni Trenta gli scienziati americani pubblicizzavano le sigarette come fossero un toccasana e il fumo, a detta degli esperti, faceva bene. Adesso non fa più così bene. Lo stesso per l’amianto. Io però non lo posso sapere e questo è un problema serio, democratico, che è stato posto con grande chiarezza: è il problema dello stato di minorità nei confronti della scienza.

Propongo un parallelo che ci ricollega al rapporto tra Occidente e il resto del mondo dove le parole illuminismo, diritti umani, modernità, democrazia suonano come una minaccia: l’illuminismo, la modernità, la scienza hanno varcato la soglia di queste terre sulla punta delle baionette, senza bussare. Noi, adesso, rispetto alle grandi strutture tecnico-scientifiche abbiamo lo stesso rapporto che avevano i popoli coloniali con i poteri che venivano a sfruttarli: qualcosa di estremamente grande col quale non si può contrattare.

Non è facile dare delle soluzioni, ma una cosa che forse potremmo fare è recuperare dall’Illuminismo un atteggiamento non voglio dire spavaldo, ma neanche pavido. Siamo cresciuti in una bolla che è durata settant’anni, che ha miracolosamente riabilitato l’idea di progresso. La cultura europea l’aveva mandata in soffitta definitivamente dopo il 1918, constatando come il progresso scientifico potesse portare alle armi di distruzione di massa, ma per qualche ragione abbiamo creduto che le cose sarebbero andate sempre meglio. Non è stato così. Le cose cambiano. Nel Rinascimento c’era l’idea della ruota della fortuna: un giorno sei in alto, un altro giorno sei in basso. Bisogna avere l’atteggiamento di chi dice: vediamo, comunque andrà noi faremo fronte. E questa è una cosa che si può comunicare. Dobbiamo abbandonare l’informazione, l’indottrinamento e preferirvi l’educazione, quel maieutico aiutare a esprimere ciò che già dentro vive. E il modo migliore dell’educazione è l’esempio. Se ci prendiamo tutti quanti a cuore il problema di pensare autonomamente, dando esempio su queste cose, possiamo forse indirizzarci verso quell’alleanza tra ragione, passione e corpo che quando funziona produce il bene, ma che quando si dissocia può partorire le tragedie peggiori a cui abbiamo assistito nello svolgersi dell’intera vicenda umana.

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