VUOTO

In questo intervento proverò prima ad analizzare quali sono gli effetti dei modelli culturali e socio-economici sulla scienza, sui suoi metodi e le sue direzioni generali. Poi, invece, invertirò la prospettiva, focalizzandomi su come la nostra visione del mondo passi per la lente di paradigmi politici e sociali che dipendono dalla ricerca scientifica e dai suoi possibili esiti, siano essi meri risultati teorici o innovative applicazioni.

Il rapporto fra scienza e società muta radicalmente durante il diciassettesimo secolo con la comparsa della borghesia mercantile europea. Le sue pretese di conquista si vestono di un pragmatismo sino ad allora inedito allo spirito del tempo, avanzando richieste di fortissimo carattere pratico. La riflessione astratta propria delle arti liberali, instauratasi in epoca medievale, elitaria e speculativa, cede il passo alla meccanica, all’artigianato e alla manifattura, ovvero proprio a quelle attività un tempo considerate rozze e servili. Vige un imperativo su tutti per soddisfare la nuova impellenza: trasferire la scienza all’interno di un prodotto materiale. Vede così la luce una moderna concezione del sapere, tutta rivolta all’immediata utilizzabilità dello strumento e che valuta la bontà di un’innovazione a seconda del suo effetto sul mondo e del profitto che in tale modo è possibile ottenere.

Il consolidarsi dell’emergente classe borghese porterà al totale decentramento delle sedi di produzione del sapere. I centri di ricerca di allora, le università finanziate dagli ingenti capitali intercettati dall’egemonia della chiesa e dell’aristocrazia, si troveranno costretti a rinunciare al monopolio sulla conoscenza. L’unità del sapere garantita dal dogmatismo delle istituzioni cattoliche entrerà in una crisi profonda, mostrandosi agli occhi dell’opinione pubblica come sempre meno adatta a guidarci nel nostro cammino di emancipazione. La storia aveva così scelto l’uomo come suo protagonista, mentre la fede veniva liquidata alla stregua di una retrograda credenza di cui disfarsi al più presto: un impiccio, un fardello per chi ambiva alla ricchezza e alla supremazia. Questa inversione di tendenza ebbe delle ricadute determinanti sotto il profilo economico e costituì quel decisivo cambiamento nei rapporti fra società e scienza che, oggi più che allora, informa il procedere del progresso. Il sodalizio fra capitalismo e ricerca affonda qui le sue radici.

È quindi piuttosto evidente come i desideri e i bisogni della società abbiano influenzato la scienza. Avremmo mai accettato la rivoluzione copernicana se la ragione non si fosse gradualmente svincolata dai lacci del precedente paradigma religioso? Se non avesse trovato una sua autonomia proprio nei nuovi valori del tempo, in nuovi stili di vita, in nuove visioni del mondo? La ricerca ha potuto rendersi indipendente rispondendo alle esigenze della borghesia e del capitalismo, rispondendo, perciò, a movimenti storici che si realizzano sostanzialmente in fenomeni politici ed economici.

Oggi godiamo di grande giovamento da quest’effetto della società sulla scienza. Infatti, soltanto una comunità compatta e autonoma ci assicura che non dilaghino infestanti pseudo-teorie. Penso, ad esempio, alla reazione suscitata dal famigerato articolo che voleva dimostrare una supposta, fantomatica correlazione fra vaccini e autismo. L’indipendenza della comunità scientifica internazionale, una comunicazione scevra di facili retoriche, la condivisione dei risultati e la loro conseguente verifica posta al vaglio di criteri oggettivi hanno consentito di deprecarne la validità, nonostante certe frange politiche e persino alcuni membri della magistratura incentivassero una deleteria eco di risonanza. Nel confronto diretto che coinvolge esperti di formazione spesso molto differente, la scienza corrobora ipotesi o smaschera frodi, premia la trasparenza o mette al bando cialtroni e millantatori.

Mi auguro sia sufficiente rievocare il danno causato dalle teorie razziali al servizio della propaganda nazista per comprendere quale importanza abbia questo genere di approccio pubblico. Al giorno d’oggi, credenze tanto infondate non avrebbero alcun modo di attecchire. La vergogna dell’uomo si nutriva allora di un’opportunistica ritrosia, incapace di denunciare quelle ingerenze sociali e politiche che hanno avuto un effetto di totale subordinazione della scienza. La mancanza di giudizio, il silenzio e il vuoto hanno legittimato una delle più raccapriccianti fasi della nostra evoluzione collettiva perché scienza e politica erano divise, incapaci di dialogare. E noi oggi sappiamo che questo silenzio non possiamo permettercelo. La scienza ci aiuta a riempire il vuoto, ci sprona a non tacere di fronte all’ingiustizia laddove impariamo a coglierne le reciproche influenze con la società.

Tornando al legame fra economia e sviluppo storico delle scienze, è innegabile che il capitalismo sia stato di vitale importanza al raggiungimento dell’odierna forma della ricerca. Ora, però, assistiamo a una deviazione iperbolica di questa dimensione originaria, una deriva patologica a cui è stato dato il nome di present shock. L’impatto del presente è onnipervasivo e totalizzante: esiste solo il problema di oggi, che oggi stesso deve essere risolto. Pensiamo esclusivamente a quello che sta accadendo, hic et nunc: dimentichiamo il passato e non ci tocca minimamente quel che potrebbe riservarci il futuro, e perciò alla ricerca viene chiesto di risolvere problemi specifici del presente e solo questa intenzione pratica e attuale viene adeguatamente finanziata.

Noi scienziati siamo oggi diventati dei distributori automatici: enti, governi, associazioni investono fondi per un progetto di loro interesse, inseriscono il gettone e selezionano il prodotto, e il nostro compito è quello di erogare il risultato di qualche analisi settoriale. Sentiamo spesso parlare della differenza fra ricerca pura e applicata. Non siamo certo così ingenui da credere che esista una ricerca astratta tout court: gli esperimenti già sono applicazione, come lo saranno certamente i risultati di quegli studi. Purtuttavia è proprio dalla ricerca cosiddetta pura che nascono le più importanti innovazioni perché essa abbraccia tutta una serie di istanze trasversali di cui solo il tempo metterà in luce gli aspetti più rivoluzionari. Albert Einstein non fondò di certo la teoria della relatività per consentirci di utilizzare un GPS, ed è oltremodo credibile che non avesse in mente alcuna questione pratica. In realtà, non esiste una ricerca che sia completamente avulsa dalla dipendenza economica e difendere una ricerca pura non significa aggrapparsi con gli artigli e con i denti a una impalpabile idealizzazione; significa piuttosto mettere l’accento sulla libertà e l’autonomia dello scienziato nel definire da sé quali linee privilegiare, quali modi perfezionare e quali obiettivi perseguire.

Oggi si parla molto di progresso e di innovazioni. Ebbene, le innovazioni sono nate dalla passione e dalla lungimiranza di lavori lenti, che i più consideravano completamente inutili, e non dall’opportunismo che troppo spesso dimostrano i principali finanziatori d’oggigiorno. Le grandi idee non nasceranno in seno a questa scienza superveloce e superpratica. La fast food sciencesacrifica l’essenza stessa della disciplina a una miopia gretta e meschina, quella in cui l’utile è solo ciò che si può utilizzare nell'immediato.

Passiamo ora ad analizzare il secondo aspetto, la relazione opposta, ovvero come la scienza influenzi i nostri modelli culturali. Questo è molto evidente, anzitutto, nell’educazione scolastica. L’istruzione attuale tende a dare preminenza ad alcune materie che ben dialogano con la nostra epoca. Pensiamo, ad esempio, alla matematica e alla sua posizione nel mondo contemporaneo: sembrerebbe avere una maggiore importanza rispetto alla retorica, alla filosofia o alla teologia perché permette di rispondere alle esigenze di innovazione tecnologica che tengono in piedi il sistema capitalistico in cui è necessario generare nuovi prodotti per evitare che esso imploda su se stesso e che collassi. Formare i giovani alla scienza significa soprattutto fornirgli accesso a una razionalità particolare il cui nerbo è il metodo scientifico. Questa postura mentale, una volta acquisita, diventa un baluardo non soltanto della scienza contro l’opinione, ma pure della democrazia contro il totalitarismo. E, in effetti, la scienza ha una notevole influenza proprio sul quel particolare aspetto della cultura che ci tocca tutti molto da vicino e che permette la vita comunitaria e associativa: la politica.

Voglio qui concentrarmi sulla relazione tra scienza e democrazia. Chi è stato educato a ragionare secondo il metodo scientifico, seguendo un’analisi quanto più oggettiva possibile dei fatti, difficilmente potrà essere plagiato da un sistema autoritario di qualsiasi tipo. La prassi dello scienziato e quella dell’elettore in regime di democrazia presentano notevoli affinità: un diffuso scetticismo di fondo, l’ambizione a un approccio critico che proceda per l’analisi dei dati e delle circostanze in cui questi dati si rilevano per giungere a delle conclusioni autonome e razionali; l’antidoto alla menzogna è perciò lo stesso. Secondo il sociologo funzionalista Robert King Merton, autore di Teoria e struttura sociale, vi sono quattro ‘imperativi istituzionali’ della ricerca: universalismo, comunitarismo, disinteresse e scetticismo. A mio avviso queste sono altresì le caratteristiche cardine del processo democratico, inscindibili e implicitamente fondative. E, a questo proposito, non posso che condividere la definizione di scienza di John Ziman: «La scienza è un’istituzione sociale tesa a raggiungere un consenso razionale di opinione sul più vasto campo possibile».

La ricerca si basa su due momenti distinti. Anzitutto c’è una fase privata in cui l’équipe studia di concerto un particolare fenomeno sino a quando non crede di aver trovato qualcosa di interessante. Si rileva perciò un dato attraverso modalità che sono proprie della scienza e in tal modo viene soddisfatta una condizione necessaria, ma non sufficiente, per includerlo nel novero delle conoscenze scientifiche. Il risultato deve poi essere messo al vaglio della comunità internazionale, deve quindi superare un rigoroso test di verifica pubblica e solo laddove riscuotesse unanime approvazione allora diverrebbe scienza a tutti gli effetti. Il risultato deve ottenere un consenso condiviso pubblicamente, proprio come cerca di ottenere un consenso simile colui che si candida in campagna elettorale. In questo emerge quanto democratica sia la scienza e quanto contribuisca alla democrazia in un senso più ampio; anzi, per quel che mi riguarda, si potrebbe usare la stessa definizione per scienza e democrazia: «un’istituzione sociale tesa a raggiungere un consenso razionale di opinione sul più vasto campo possibile».

La missione è sempre rivolta alla consistenza e alla verità; certo, i metodi sono differenti, ma il sistema valoriale di fondo coincide, è esattamente lo stesso. Fa male alla scienza chi la taccia di non essere democratica e fa male alla democrazia chi ritiene che la politica non debba occuparsi degli effetti della scienza sul mondo. Questioni come la clonazione, gli ogm, l’energia atomica, la terapia genica hanno considerevoli ricadute sull’intera umanità e quindi devono poter essere pensate e discusse da tutti. Non è accettabile che un cittadino sia passivo di fronte a fenomeni capaci di modificare il suo mondo così profondamente.

La scienza fornisce gli strumenti, spetta poi agli uomini deciderne l’utilizzo. La tecnologia ha permesso all’uomo di sopravvivere e ora lo sta portando al di là dell’uomo stesso, siamo homo creator: possiamo generare organismi mai esistiti, progettare un disegno intelligente per il futuro. Non siamo più il solo risultato della selezione naturale, l’artificiale è molto presente nelle nostre vite e ci modifica al punto tale da permetterci di vivere sempre più a lungo. Intorno alla metà del secolo scorso l’aspettativa di vita media di homo sapiens ha subito un’impennata vertiginosa: fino al 1900 la vita si concludeva naturalmente verso i trent’anni, oggi, a livello mondiale, la vita media è di 71 anni e credo si debba cogliere questo dato con entusiasmo e positività, poiché va a sottolineare un uso benefico della scienza. Persino nei paesi in via di sviluppo la prospettiva di vita si sta allungando e tutto questo lo vedo come il concreto realizzarsi di una preliminare ed essenziale forma di equità e di giustizia.

Sono ottimista. Lo sviluppo della scienza e della tecnica ha conosciuto più felici risoluzioni che errori drammatici. Dunque, se vogliamo che nel nostro futuro ci siano sempre più felici risoluzioni, ci basterà imparare a evitare quegli errori drammatici che vengono commessi quasi esclusivamente a causa di un mancato confronto; proprio a causa di quel vuoto che scienza e democrazia hanno il compito di riempire con il dialogo pubblico, aperto e informato, permettendoci di prendere piena coscienza dei loro effetti reciproci, predisponendoci alla prudenza e alla responsabilità, ovvero a quelle virtù che si confanno al rispetto dell’uomo per la propria storia collettiva.

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